Intervista a cura di Il Granchio in Frack
Con Marco c’è subito uno strano feeling. Probabilmente poche cose in comune, sicuramente due stili nel viaggiare parecchio differenti eppure, è esattamente la persona che inviterei a sedere al mio tavolo per fare conversazione. Marco puoi dirmi come caspita ti è venuto in mente di partire con una panda? Avevi litigato con tutte le compagnie di noleggio? O stavi pagando una penitenza?
Ahahah! Lo so che sembra una scelta naïf, (e probabilmente un po’ lo è) ma sii sincera: esiste mezzo di spostamento più simpatico di lei? È un’automobile amata da tutti, il settanta percento (e mi tengo basso) delle persone che incontrerai nella vita l’ha posseduta o guidata anche solo una volta nella vita; a me ricorda una giovinezza spensierata ed un mondo, se mi permetti, migliore. Quella di mia mamma era color mattone e tutt’ora sorrido ripensando a quella macchina. La panda ha un gran pregio: è indistruttibile! Un prodigio della meccanica, invincibile sul serio anche perché…essendo del tutto priva di elettronica, può essere aggiustata a fil di ferro e bestemmie da più o meno qualsiasi meccanico della Terra.
Sei appena diventato la Ava Max ‘de noantri’. E adesso che abbiamo messo in panchina Rovazzi e company, parlami del titolo: “Panda o morte”. Geniale ma… perchèé?
Era il tormentone in chat con gli amici, ci motivavano e ci incitavano con questa frase. Sapevamo tutti che non sarebbe stata affatto semplice. Questo motto racchiude in sé l’idea d’impresa epica, d’ impegno e dedizione. Infondo in questa avventura fuori dall’ordinario qualcosa avremmo perso sicuramente, chi un lavoro, chi un affetto e chi magari, un vecchio sé.”
In questo libro si sta stretti, stipati tra valige e finestrini roventi, tra musica assordante e lunghi silenzi, si resta lì immobili e inermi e ci si lascia trasportare, pagina dopo pagina dopo pagina, guardando fuori dal finestrino quel mondo che continua a cambiare la forma e i colori come in una canzone dei Litfiba. Ci si lascia cullare dagli ammortizzatori che sobbalzano su strade poco trafficate attraverso quattordici paesi, sfidando il caldo torrido e le infinite attese alle dogane. Se la pazienza è la più eroica delle virtù, allora voi l’avete.
Marco, lo hai descritto come: “Il viaggio che chiunque ci invidierà”, tranne i claustrofobici e gli iperattivi aggiungerei io, ma cosa lo rende così speciale ed unico da essere addirittura ‘invidiabile’?
Chi ama viaggiare o è dotato di una seppur tenue forma di curiosità, non potrà non riconoscere l’eleganza romantica di una traversata in automobile stato dopo stato. Il poter assaporare il tempo e lo spazio un chilometro dietro l’altro, forti della presenza di compagni di viaggio affidabili e anche lieti della solitudine riflessiva che solo un abitacolo in movimento può concederti.
In quanto tempo si prepara un viaggio come il vostro?
Ad ottobre abbiamo deciso che era l’idea giusta per noi e a luglio eravamo pronti ad ingranare la prima. Non abbiamo smesso un solo giorno di progettarlo da quando ci è venuta in mente l’idea; abbiamo scelto il tragitto, richiesto i visti, acquistato la panda e l’abbiamo allestita secondo i nostri bisogni. In ultimo un dettaglio non proprio marginale: ho dovuto licenziarmi da un lavoro che mi piaceva molto e, cosa ancora più difficile, ho dovuto far digerire la cosa alla mia fidanzata.
Diciamo che in un viaggio come questo dove la lingua e la burocrazia sembrano le montagne più faticose da scalare, tu sei riuscito a trovare qualcosa di ancor più complicato, anche se credo sia incredibile la sensazione che si prova nel lasciare qualcosa per inseguire un sogno, sono gli ardui bivi della vita, basta non guardarsi indietro e seguire l’istinto. A proposito di strade da percorrere e di difficoltà, qual è stato il paese più complicato da attraversare?
Direi l’Uzbekistan. Mi vien da sorridere neanche lo avessimo fatto apposta ma lì il vero problema sono proprio le strade! Non sono dissestate, peggio!, hanno delle enormi buche in qua e là, dovevamo procedere a venti all’ora sterzando continuamente per evitare di morire. Farlo di notte è ancora più pericoloso, non sai mai come sarà la strada cinque metri più in là sino a che non la percorri. Ma ce la siamo cavata, diciamo che per l’intero viaggio l’unica cosa di cui dovevamo sempre preoccuparci era di non rimanere senza benzina e senz’acqua. In lunghe giornate di rettilinei desertici era impossibile fare rifornimento e acquistare bevande o viveri perciò mantenevamo sempre una discreta scorta.
Ho letteralmente sudato a leggere delle tue lunghissime attese in frontiera, mi è venuto il magone nonostante fossi comodamente sdraiata sul divano
Sì, diciamo che adesso non vivo più così male l’aspettare dal medico in sala d’attesa o lo stare in fila alla posta ore e ore! A parte gli scherzi, il caldo me lo ricordo ancora. Atroce, appiccicoso, opprimente. E la sospensione del tempo, quella era un elemento assurdo e fuori da ogni logica conosciuta… la logorante attesa del non sapere quando toccherà a te. In un occidente dove tutto dev’essere veloce, rapido e a portata di click, il dover attendere senza sapere per quanto tempo è stato un bel cambio di paradigma.
Ne hai passate molte, il che ti rende sicuramente il più esperto in questa conversazione, potresti perciò dirmi che cos’è una frontiera?
Un luogo di arricchimento e d’incontro. Non potrei definirla altrimenti. Se pensiamo a città come Triste, Bisanzio, Alessandria d’Egitto o Sarajevo, sono stretti luoghi in cui i popoli s’incontrano (e si scontrano), imparando gli uni dagli altri. Le frontiere per me sono romantiche ed entusiasmanti, sono il vero motore della Storia. Chi vive in una città di confine è tendenzialmente più scaltro degli altri perché abituato a pensare simultaneamente con diversi piani cognitivi d’interpretazione.
Questo viaggio è ricco di incontri con persone autoctone ma anche con viaggiatori erranti come voi, diverse nazionalità e stili di viaggio, differenti percorsi e storie di vita. La cosa più eccitante e ogni volta sconcertante è il riuscire ad incontrare persone così differenti e geograficamente distanti tra loro, sedute tutte tra i tavolini di uno stesso bar. Anche mentre io e te parliamo ci sarà l’incredibile incontro tra un giapponese, un tedesco e un peruviano, o tra una famiglia di indiani, una coppia di americani e uno studente canadese. Sì, sembra l’inizio di una barzelletta, ma è meno improbabile di quanto si pensi. È il bello del viaggio: capire che il mondo è in continuo movimento
Amo il mondo e le sue diversità. Rigetto l’uniformità e la piattezza delle omologazioni. Lungo quella strada ho incontrato tantissimi avventurieri e viaggiatori, camionisti ed immigrati di ritorno, turisti e gente del posto. Ho raccolto tante incredibili storie aiutato dall’incredibile capacità di Federico nel parlare russo.
Cosa serve veramente per intraprendere un viaggio come questo? (Oltre alla Panda e a Federico ovviamente)
Amici fidati e che reggono lo stress. La voglia di gettarsi nell’ignoto con passione e organizzazione serrata. Ed un minimo di preparazione antropologica, secondo me elemento essenziale.
Se Al Bano sapesse che regali i suoi cd in giro per il mondo sono certa che te ne farebbe avere una scorta. Ad essere sincera, durante un mio viaggio in solitaria, è successo anche a me di voler omaggiare con un mio braccialetto una persona che mi ha aiutato in un momento di difficoltà ma mai mi era venuto in mente di portarmi dietro degli oggetti da dare in dono strada facendo. È un’idea molto bella
Ho sempre regalato qualcosa nei miei viaggi, qualcosa di tipicamente italiano. (Diciamo che Al Bano è un must-have!) Non importa il valore economico del dono, è un oggetto prezioso in sé, un legame che si crea con il posto che mi ospitava. Avendo sempre nello zaino qualcosa da lasciare è un po’ come distendere il tempo, allungarlo oltre lo spazio nei miei ricordi e in quelli di qualcun altro.
Ho provato profonda invidia per il tuo bagno nel mar Caspio! Sapresti dirmi altre due cose fatte, che rientrano nella categoria: ‘Porca miseria mi sento come Neil Armstrong e ora posso depennare questa cosa dalla lista delle mille cose da fare prima di morire!’
Sarò breve, perché non voglio farti rosicare più del dovuto. Essere alla guida durante l’attraversamento del Bosforo e vedere il cosmodromo di Baykonur.
Ho scarabocchiato sul tuo libro sottolineando a più non posso. Il vento inquinato e puzzolente del lago Aral; il padre di famiglia che beve (come se fosse una cosa normale) l’acqua marrone di una pozza all’interno della quale ha fatto tuffare i figli per rinfrescarsi (la foto alla fine del libro è affascinante e agghiacciante allo stesso tempo); la città di Tbilisi (che mi ha fatto venire in mente una puntata dell’Ispettore Coliandro); l’appuntamento galante della giovane coppia in Uzbekistan descritto in maniera così romantica da essere uno dei miei passaggi preferiti del libro ma vorrei chiederti: qual è stato il tuo momento preferito?
Senza dubbio la visita alla tomba di mio bisnonno Wladyslaw Demidowicz.
La prefazione al tuo libro è stata scritta da Nicolai Lilin che ha speso parole meravigliose per descrivere questa vostra impresa. Prendo in prestito le sue parole: “…Dobbiamo re-imparare a viaggiare come ci insegnavano i grandi personaggi della cultura umana, come il russo Afanasi Nikitin, l’italiano Marco Polo o l’arabo Ahmad Ibn Fadlan…”. Arriviamo così all’ultima domanda: che cos’è il viaggio per te?
Il viaggio è per me qualcosa di fondante, d’innato. È scoprire, è non giudicare secondo i propri canoni di appartenenza, è mettersi alla prova. Ricordo il mio primo Interrail nell’estate di vent’anni fa. Un’epoca pre-internet che rendeva tutto più difficile ma anche più epico. Fa sorridere dirlo adesso ma, la volta in cui mi sono sentito più distante da casa è stato in quel viaggio. A Stoccolma nel duemila o duemilauno. Senza smartphone, senza reflex, con i soldi contati e da dover cambiare in banca, senza carte di credito e app per qualsiasi sciocchezza. Wow, le avventure analogiche, quelle senza fotografie e di epoca pre-smartphone sono quelle che più ricordo con nostalgia.
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