La pandemia costringe i teatri a rimodellare i cartelloni e a sforzi di creatività non banali. Gli spettacoli devono essere accorciati, le pause rimosse, organici e pubblico devono essere diradati e tenuti a distanza. L’Opera di Francoforte sostituisce la nuova produzione di „Die Banditen“, opera buffa di Jacques Offenbach, con una serata dedicata a Giovanni Battista Pergolesi e mette in scena un dittico che allinea La serva padrona allo Stabat Mater.
Pergolesi compose la Serva Padrona come intermezzo per l’opera seria “Il prigionier superbo”, che poi scomparve dai palcoscenici. La Serva Padrona, a volte considerata la prima opera buffa, invece acquistò subito vita propria e divenne celebre in tutta Europa. La trama è tipica da Commedia dell’Arte. La giovane e intraprendente Serpina ne ha abbastanza di essere soltanto la domestica del ricco scapolo Uberto. Con una serie di stratagemmi e l’aiuto del servo (muto) Vespone riesce a vincere la resistenza del maturo padrone e a sposarlo. Da serva a padrona, per l’appunto.
Se l’intermezzo è una piccola opera proiettata in avanti, che già si distacca dai modi barocchi e lascia intravedere sviluppi futuri, lo Stabat Mater è una composizione sacra per due voci femminili con lo sguardo rivolto al passato. Il testo dello Stabat Mater, attribuito a Jacopone da Todi, è un racconto della Passione in cui si dipinge il dolore e lo strazio della Madonna ai piedi della Croce. Musicato nel 1736, anno della morte di Pergolesi, anche lo Stabat Mater conobbe immediatamente un successo folgorante in tutta Europa. Lo stesso Johann Sebastian Bach compose una cantata (Tilge, Höchster, meine Sünden) a partire dalla musica di Pergolesi.
La regista Katharina Thoma crea un continuum molto cattolico fra le due parti dello spettacolo, che riesce in qualche modo a collegare i toni burleschi della prima parte con la meditazione tragica della seconda.
La Serva Padrona si svolge in una canonica (scene di Etienne Pluss). Uberto è il priore e Serpina la perpetua. Lui in abito talare. Lei in grembiule. Il servo muto Vespone è un sacrestano malinconico e pignolo. È chiaro fin dall’inizio che i due sono già una coppia di fatto. In quest’ambiente devoto e un po’ claustrofobico i toni farseschi dell’intermezzo si attenuano e lo spettacolo si ammanta di una certa pensosità, complice anche la direzione compassata di Karsten Januschke. I due cantanti (una coppia anche nella vita di tutti in giorni!) recitano con ottima sintonia e riescono a dare un senso credibile alla storia. Alcuni momenti, come le scene da seduzione parrocchiale, fanno anche sorridere. Il basso-baritono Gordon Bintner si appropria bene degli accenti irresoluti di Uberto, sospeso fra la passione e i doveri sacerdotali, con voce sempre sicura e ricca di sfumature. Buono anche il suo italiano. È padrona della scena il soprano Simone Osborne, che ha il suo momento migliore nei toni melodrammatici (ma simulati!) della celebre aria “A Serpina penserete”. Espressivo anche il duetto finale “Contento tu sarai”. Happy end. L’amore trionfa, lui getta la tonaca alle ortiche, preparano i bagagli e partono assieme. C’è speranza.
Durante la breve pausa la sacrestia si dilata in uno spazio vuoto e buio. Un paesaggio spirituale dove il soprano Monika Buczkowska e il mezzosoprano Kelsey Lauritano, vestite molto severamente da Irina Bartels, iniziano a intrecciare il duetto iniziale dello Stabat Mater. Un colpo d’occhio che rimanda all’estetica di certe pitture barocche. Il palco poi si popola di un’umanità dolente. Prostitute, poveri, fuggiaschi. Arriva anche la coppia Uberto-Serpina con baby al seguito. Il buon Vespone diventa, chissà perché, il Cristo morente. Mentre il pathos dei duetti e delle arie e la recitazione ieratica delle due protagoniste creano una dimensione di trascendenza verticale, questi sventurati si aiutano, quasi a formare una piccola comunità. Si lancia un segnale di consolazione e di speranza in questi tempi non proprio allegri.
Alla fine il pubblico in sala saluta lo spettacolo con applausi convinti.