Questo libro scritto da Gian Pietro Bertoli – La zattera, ovvero Racconti sulla banda dei ragazzi dei “ghèt” – dalle chiare impronte memoriali e autobiografiche, ha numerose valenze tematiche che tuttavia, prima di analizzare, vorrei far precedere dall’epilogo del racconto Il miracolo economico, poiché ci da la misura del trapasso generazionale ed epocale avvenuto nella seconda metà del Novecento nella nostra società: «Pietro, ormai vicino agli ottant’anni, vive i suoi giorni in attesa di niente. Soltanto dei suoi figli e nipoti sparsi per il mondo. Questi arrivi portano una ventata di felicità e di trambusto. Quando il sipario della partenza dei parenti cala, la scena ritorna solitaria. Ore vuote riempite di pensieri, sovente sui fastidi della salute. Qualche volta ricordi della giovinezza. Rimpianti per quella società faticosa ma fiduciosa sul futuro, o forse soltanto per quei giorni in cui la gioventù correva incontro all’avvenire. Oggi, la sua progenie viaggia su un marchingegno avveniristico molto più potente. Ma le dinamo, da far girare con la pedalata, sono molte di più. E il traffico è caotico, viaggia in tutte le direzioni e ciascuno crede che la sua via sia quella giusta».
Qui troviamo, anche se solo appena accennati, diversi spunti che riempiono la trentina di racconti di quest’opera, ambientata tra Pont Canavese e Sparone, due località piemontesi della Valle dell’Orco – quella che sale a Ceresole Reale per intenderci – negli Anni Cinquanta, con proiezioni nei decenni successivi: è una zona di montagna, e della vita dei montanari di allora spesso si parla, dalle dure condizioni di vita al noto fenomeno dell’emigrazione. Pietro è il ragazzo in età scolare protagonista della prima parte di tali narrazioni, che assume un carattere di letteratura realista, oserei dire verista, mentre la seconda parte sfuma gradualmente tale identità per sfociare in dimensioni oniriche, con personaggi provenienti dal mondo fiabesco (elfi, silfidi, esseri delle terre di mezze, creature angeliche, famiglie di dinosauri, visioni e trasfigurazioni varie…). Pietro è anche il nome dell’autore, nato proprio a Pont Canavese e che ora è sulla soglia degli ottant’anni: elementi che ci fanno presumere con molta probabilità che molti degli episodi narrati sono stati vissuti in prima persona dallo scrittore stesso.
Il verismo di Bertoli, relativo alla prima parte, trova riscontro non solo nel fatto che, subito dopo la lettura dei racconti iniziali, sentivo in essi il respiro di un’atmosfera verghiana (soprattutto Rosso Malpelo, per la tematica del lavoro minorile e della fanciullezza negata), ma nei dati concreti vicini ai canoni del verismo italiano ottocentesco: oggettività della narrazione, non esente tuttavia dalla psicologia dei sentimenti interiori di Pietro, anch’essa però realtà oggettiva; essenzialità, semplicità e secchezza dello stile scritturale e del linguaggio insiti nell’impianto narrativo; utilizzo frequente di termini provenienti dall’idioma locale, in questo caso il dialetto piemontese con le sue varianti vallive, a partire da “ghèt” – collocato nel sottotitolo – cioè ghetto, qui con significato ampio di zona o area povera, periferica e quindi abbandonata e marginalizzata rispetto ai nuclei metropolitani in sviluppo (opportunamente l’editore ha pubblicato in esergo un piccolo vocabolario di termini dialettali); inserimento frequente del dialogo fra i personaggi con caratteristiche di brevità ed immediatezza, come nella lingua parlata; rapide annotazioni di contorno sul paesaggio (le montagne), il tempo storico (l’epoca della ricostruzione e gli inizi del boom economico), la società, il modo di vivere, la mentalità di individui, famiglie e gruppi (quindi annotazioni sociologiche, economiche, morali).
Oltre tutto ciò, tuttavia mi pare che il cuore, il centro vero del libro stia nella nostalgia dell’autore per l’età mitica e sempre idealizzata dell’infanzia, della giovinezza, affiancata ad una filosofia basata sulla gioia di vivere il gioco come esperienza di vita, che diviene educativa nel processo di crescita dell’individuo: beninteso, il gioco di allora, fatto di cose povere e semplici, tanta fantasia e creatività, magico e avventuroso, vissuto in gruppo (banda) che richiedeva e sviluppava nei ragazzi capacità, abilità, superamento delle paure. Non i giochi dell’oggi preconfezionati e super tecnologici, rinchiusi nelle campane di vetro di ambienti asettici. In diversi racconti in cui è Pietro che agisce troviamo infatti tali rudimentali strumenti che diventano ‘simboli’ identificativi nella fantasia fanciullesca.
Un qualunque pezzo di legno trovato per strada prende la forma di un fucile nell’immaginazione del ragazzino, mentre per la madre e per la proprietaria a cui viene restituito non significa nulla (si legga il racconto Il fucile). Una pistola viene portata nella banda da un amico di Pietro e tutti vogliono usarla, per cui si industriano a costruire i proiettili e per procurarsi la polvere da sparo, usando dei petardi: il primo colpo viene sparato con successo, mentre una specie di cannone costruito dopo fa cilecca, i ragazzi si bruciacchiano i vestiti e il problema diventa cosa dire ai genitori: i sensi di colpa dopo le birichinate sorgono sempre in Pietro e i suoi amici, poiché per l’educazione autoritaria del tempo erano botte sicure; qui c’è l’importante annotazione dell’autore sull’abbandono a sé stessi dei giovani dei ‘ghèt’, dal momento che non v’era né tempo, né mentalità per un dialogo fra generazioni, sia per le incombenze lavorative dei genitori (spesso il padre era migrato all’estero ed inviava a casa un ‘assegno’ per la sopravvivenza della famiglia), sia per i rigidi sistemi educativi ancora in auge (Giochi pericolosi). Dalla solita banda viene ritrovata una sciabola in una fenditura del castello e il gioco diventa l’ostentazione del trofeo: in realtà l’arma era stata rubata da altri e poi là nascosta; i carabinieri che indagano su un furto avvenuto nel maniero, dapprima incolpano Pietro, ma poi lo scagionano scoprendo il vero colpevole: l’esperienza servirà a Pietro per capire come funziona il mondo degli adulti e la storia ha un lieto fine, poiché la spada è stata restituita senza che lui abbia fatto la spia, rispettando un tacito ‘codice d’onore’ (La spada). Spesso Pietro ed amici si trovavano a giocare alla “goia”, un piccolo specchio d’acqua appena fuori dal paese e quando l’Enel dismette dei vecchi pali della luce, a qualcuno viene l’idea di costruire un zattera: vengono fatti scivolare dall’alto con fatica nel torrente, recuperati e sistemati per farne un’imbarcazione con cui riescono a navigare nella stessa “goia”, imparando i rudimenti dei mestieri connessi (La zattera; forse il simbolo della capacità di sopravvivere in ogni situazione grazie alla propria ingegnosità e caparbietà).
Altri racconti vedono Pietro subire una severa punizione per aver offeso la maestra, ma in quel frangente non fu educativa perché lo scolaro, come conseguenza, aveva imparato a marinare la scuola (Tre giorni di sospensione); oppure, d’estate, seguire il padre a Sparone per lavorare nei campi, invece che godersi le vacanze: il risvolto positivo è l’incontro con la lettura nei momenti di tempo libero, dapprima storie d’amore, quindi Salgari, e da allora i libri rimasero per lui sempre importanti (Percorso formativo); ed ancora vivere un’avventura in montagna insieme ad alcuni compagni con la conquista della vetta, dopo una notte trascorsa in un ricovero di fortuna (Ascensione); ed infine – a conclusione della prima parte – una narrazione che abbraccia il periodo del ricovero in ospedale della madre, con il ragazzo che diviene responsabile della famiglia aiutando la sorellina, in assenza del padre, minatore in Belgio: era la stagione dell’avvento della società consumistica in cui inizia una nuova fase di vita per tutta la famiglia, con il ritorno a casa della madre e il nuovo alloggio nelle “Case Fanfani”, dotate di tutti i comfort per una vita materiale migliore (Il miracolo economico). Da non dimenticare i due racconti d’apertura: la vicenda di Angelo che si salva dal freddo rifugiandosi in una galleria alpina (Una notte sul monte) e quella di Marì che invano cerca lavoro a Pont Canavese (MilleNovecentoDiciassette).
La seconda parte non aggiunge nulla di diverso rispetto al mondo descritto nella prima (fatta eccezione per Permesso di soggiorno, una brutta storia sulle conseguenze delle velleità di uno Stato (burocrazia) rispetto alle sue capacità), se non che le trame si avvalgono di elementi e personaggi delle leggende popolari della montagna e quindi l’autore si fa portavoce di questa cultura ritenuta secondaria. Bertoli fa rinascere uno spaccato dell’Italia del secondo dopoguerra in cui molti possono riconoscersi.
Enzo Concardi