“Un classico non ha finito di dire quel che ha da dire”
sosteneva Italo Calvino.
E un classico è “L’ispettore generale” di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, capolavoro satirico del 1836 che dalla Russia zarista può spaziare oltre i confini geografici e storici.
La derisione delle nefandezze e della corruttela è infatti un crisma universale da applicare a qualunque forma di potere, così come la dabbenaggine può albergare anche nelle menti più avvezze al malaffare.
La vicenda si svolge come una commedia degli equivoci, sullo schema delle commedie latine in cui lo spettatore può seguire i due livelli di svolgimento dell’azione, uno all’insaputa dell’altro, con immancabile divertimento fino al colpo di scena chiarificatore per tutti.
In un piccolo centro della campagna russa, la notizia della visita di un ispettore generale inviato dal potere centrale scatena le ambasce del sindaco e dei notabili pubblici adusi al malgoverno e alle ruberie perfino dei medicinali di vecchi e ammalati, alla violazione della corrispondenza, al disprezzo delle sentenze e al dispregio della formazione scolastica.
Nel tentativo di fornire un’immagine incontaminata della propria condotta, mettono in atto un meccanismo di acquiescenza e di apertura di credito nei confronti di un giovane di passaggio alloggiato in una misera locanda che ritengono sia il temuto ispettore, cui il sindaco concede anche la mano della figlia.
Lo squattrinato Chlestakov, un po’ per disorientamento e un po’ per opportunismo, accetta le prebende e i presunti prestiti che i funzionari gli elargiscono con l’intento di acquisirne la benevolenza e nel contempo renderlo ricattabile, e conquista pure le grazie dell’annoiata e sensuale moglie del primo cittadino. La scenografia sottolinea i due piani d’azione con una ripartizione verticale dello spazio.
Sulla corrotta classe dirigente ha la meglio il guizzo tempestivo del giovane che si dilegua appena in tempo, truffando i truffatori intenti ad almanaccare sui futuri avanzamenti di carriera. Fino all’arrivo dell’ispettore generale…
Gogol’ stigmatizza l’immoralità della burocrazia russa che persegue l’interesse personale facendo affari, intascando fondi pubblici e creando una vasta rete di sodali asserviti ai medesimi loschi scopi, poiché la società corrotta fagocita chiunque voglia occuparsi della cosa pubblica corrompendone l’animo.
Enrico Guarneri coglie lo sguardo satirico dello scrittore russo accentuandolo in una visione grottesca che si può riferire a vari contesti, in una trasposizione di uomini disonesti e vassalli ossequiosi che vortica a spirale dagli accenti russi alle intonazioni siciliane.
“In un luogo “non-luogo” ed in un tempo “non tempo”, che potrebbero persino essere (entrambi) i nostri, le figure sordidamente irresistibili dell’estabilishment locale, in formato bonsai: il piccolo sopruso, il minuscolo profitto di cui si nutre il misero potere della burocrazia. È l’aneddoto lontano di una Russia perduta, o l’articolo di giornale che ci racconta di una cittadina italiana?” si legge nelle note di regia.
La vicenda è drammatica, il linguaggio è comico.
Così Guarneri, regista e interprete, gioca sull’ambiguità con la più classica delle dinamiche teatrali mettendo a fuoco profili di similitudine tra popolazioni diverse, per una satira del potere corrosiva a qualunque latitudine.
La corda comica, sottolineando gli aspetti grotteschi, vira nella farsa bonaria grazie alla verve dell’attore che straripa con la sua incoercibile mimica e la colorita parlata catanese, cui si affianca la rappresentazione parodistica e caricaturale di tutti i personaggi.