Di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
con Michele Di Mauro, Federica Fracassi
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Dall’1 al 6 Marzo al Teatro Vascello di Roma
Un paesaggio detritico, una montagna scomposta di sedie di legno e plastica su un isolotto, valle di rifiuti che attornia le esistenze del vecchio e della vecchia, marito e moglie, lui difettato dall’ordine oligarchico, per vocazione, sempre per vocazione lei esautorata dall’utopia del benessere che nella Parigi del dopoguerra, come in tutta l’Europa (oggi, come allora, nuovamente), non trova collocazione.
Le sedie disposte nel mucchio vengono allineate a cerchio per ospitare ospiti. Arrivano, suonano, vengono fatti entrare ma non si vedono, e tuttavia, dialogano muti. Sono ospiti invisibili e il soliloquio del vecchio (almeno 95 anni di persistente lotta contro i mulini a vento), apre le porte ad un oratore che si fa strumento di resistenza dagli attacchi esterni. Ritto in piedi, a difesa degli umiliati e offesi, si fa loro portavoce, nella fattispecie si fa portavoce del vecchio, dell’uomo di quella casa che somiglia sempre più a una costruzione derelitta stagliata su uno scenario post-apocalittico. Quello che l’orazione, l’arringa, la rutilante disamina dei fallimenti del piccolo uomo, quindi del mondo fatto a misura d’uomo, dispone ai benpensanti, al pubblico in ascolto, altro non è che un messaggio di rivisitazione del rimpianto, della paura, dei rimorsi di una vita intera. Il vecchio nomina spesso la carica del colonnello, una posizione di rilievo, una posizione che avrebbe potuto occupare ma che alla fine non ha occupato, occupando soltanto una delle tante sedie presenti, probabilmente perché lui ha attraversato mezzo secolo di guerre, diatribe, fratricidi, lavori persi, posizioni allontanate. Il vuoto che si percepisce attorno a due vere e proprie maschere di tragica, assurda comicità, subissato di tanto in tanto, da interferenze sonore tipo quella di una vecchia radio, stazione sonora, voce intermittente che sembra suggerire delle pause dal tragicomico dolore. Vecchi ma dentro ancora giovani. Vecchi elementi di un messaggio all’umanità che non ha vincitori, ma solo e soltanto vinti. E l’oceano dietro, illuminato da un faro, fa da sfondo sonoro per quel che è destinato a precipitare, lasciando quello stesso mondo testimone assoluto dello sfacelo. Valerio Binasco agisce con compattezza e visionaria determinazione, forte dell’altra protagonista che è la scenografia di Nicolas Bovey, nel restituire ai due grandi interpreti, Michele Di Mauro (straordinario) e Federica Fracassi (bravissima), uno scenario ottimale per le loro elucubrazioni, sempre e comunque, solipsistiche, anche quando temono di aprirsi all’esterno. Si trascina stanco il corpo del vecchio che sputacchia qua e là sulla terra e sui detriti, veleni mal corrisposti. L’attore lo fa senza compiacersi delle sue capacità mnemoniche e comunicative, appropriandosi di un linguaggio che è anche e soprattutto di pancia, terreno, quantunque tendente all’astratto. L’attrice lo segue con curiosa, pungente compartecipazione, lasciandosi andare a patetiche dispiegazioni di ego. Maschere tragicomiche che si leccano le ferite. Maschere che parafrasando Heinrich Böll, dispensano opinioni da clown. Maschere ferite, offese, umiliate, che solo l’ironia può salvare nella memoria del tempo, a seguito della caduta.