regia Giuseppe Marini
scene Alessandro Chiti
costumi Mariano Tufano
musiche Marco Podda
produzione Società per Attori
con Franca Valeri, Licia Maglietta, Urbano Barberini, Gabriella Franchini
LA CONTESSA E LA SUA STUFA AUSTRIACA
Pudichi, sommessi fasci di luce polverosa – provenienti da chissà quale finestra o fenditura – mostrano progressivamente l’interno fortemente viscontiano (risalgono la corrente mnemonica le stanze vuote e neglette della residenza del principe di Salina a Donnafugata) del palazzo seicentesco in cui si trova a entrare – per dissimulata volontà, o necessità – la Vecchia Contessa protagonista della pièce. E’ lo spirito senza riposo, così inquieto e ansioso di assoluto, del Manfred di Schumann a rivelare gli angoli del salone: le travi pericolanti, i mosaici sbriciolati, la tappezzeria rosso cupo, ormai scolorita, macchiata, strappata alla base, l’intonaco verde chiaro, strusciato dagli anni, che si intravede attraverso l’alta porta semiaperta a pannelli quadrati, e una monumentale, magnifica stufa di maiolica (“così bella…e così spenta”), rapita dalla Contessa in un passato imprecisato alle vertigini concrete e metaforiche delle montagne austriache. Tout se tient nell’indimenticabile prologo; la scelta musicale ha una stretta connessione con l’anima visionaria e offesa della scena e ne acuisce il potere fascinatorio. Apre inoltre un collegamento, involontario o meno (comunque automatico), con il lungo Adagio della Terza di Mahler: il moto lento e reiterante, la potenza primordiale e onirica, ondosa, che va a rarefarsi sulla battigia di quel Nulla manganelliano dove sopravvive solo la molteplicità degli echi frantumati e sovrapposti; ed è proprio l’intensità dell’evocazione di quegli echi a sottrarli al mistero del buio e alla paura della solitudine, mutando angoscia e incubi in possibilità salvifica e rigenerante, in nuovo inizio, o in fine costantemente rimandata.
Non si pensi però a una qualche inclinazione elegiaca o crepuscolare del testo. Prestissimo, fin dall’entrata in scena della Vecchia Signora in elegante pelliccia color crema e cappello blu “di modista”, si percepisce il geniale, sottile slittamento dei dialoghi verso una zona entro la quale luoghi comuni, banalità, rapporti convenzionali (“il lei non è distanza, è riflessione; dà modo di valutare il rapporto che abbiamo con l’interlocutore”) non hanno diritto di asilo. Persino il destino è bandito, persino i ricordi, la realtà si disfa e si ricompone nello spazio ogni volta nuovo e vuoto, grazie alla lucidità (secca, consapevole, insofferente, infinitamente creativa) di un ragionare apparentemente insensato (la stessa insensatezza rintracciabile nei mondi di Carroll), che in realtà si configura come il crogiuolo dove arrivano a fondersi realtà oggettiva e dimensione onirico-fantastica. Questa forma psichica ed estetica dell’esistenza trae linfa dalla contrapposizione con l’ossessiva organizzazione cronologica della vita di cui è fautrice la segretaria (e con l’ottusa determinazione della stessa a riportare la Signora all’unidimensionalità dei ricordi), nonché dalla vivida relazione con gli oggetti. L’ininterrotta ricreazione degli eventi, per fuggire l’astrazione, prende come punto di riferimento il rapporto con le cose – il feltro nero di Balenciaga o la panciuta stufa austriaca – e le suggestioni fisico-emotive provenienti da esse. Per questo è così importante mantenerne vivo il senso, per es. accendendo la stufa.
Tutto il resto deve essere abbandonato e dimenticato: le case che si impregnano di memorie e relegano i proprietari entro un’identità immutabile (“la cosa migliore è venderle; si offendono e ti lasciano con rancore, in modo definitivo”) e i figli (“non è nei miei progetti farle da mamma”) cui, se incontrati per caso, vengono assegnati ruoli diversi (per es. il maggiordomo, che dà sempre una certa distinzione: “lei verrà temporaneamente tollerato con la speranza che riesca ad accendere la stufa”).
Altrimenti, in una tenebra improvvisa e angosciante, può materializzarsi lo scheletro bianco di una sedia a rotelle e la prospettiva di una forma di vita chiusa e ferma, in compagnia di una segretaria leziosa e sciocca che anela a verificare il clima descritto dai giornali e un figlio superficialmente amorevole. Visione beckettiana che dura pochi minuti e che lo spettatore (fortunato di aver assistito a un tale prodigio) non dimenticherà mai. Niente potrà più cancellare la voce inerme ed esasperata della Contessa, i piccoli gesti rotti dell’insofferenza, dell’impotente rabbia senile, i toni di un’intelligenza senza pari che non si rassegna a cedere terreno alla stupidità circostante (risuona immateriale una sua frase precedente “io non faccio parte della gente”), della fragilità dignitosa e ferrea che le impedisce di arrendersi alla molliccia informità del mondo.
Non sarà questa la fine, si tratta solo di una possibilità oscura da allontanare, di un vacillamento del pensiero. In realtà (realtà?), la nostra Contessa, lasciata dall’insopportabile segretaria, abbandona definitivamente il palazzo (e il figlio Manfred) portandosi appresso una nuova, scarmigliata cameriera e l’idea di far trasferire nel nuovo alloggio la cara stufa di maiolica. Perché, per restare in gioco, qualcosa deve per forza “rimanere in sospeso”.