Il dolore di una madre che perde il suo ragazzo, unico figlio, in modo drammatico e volontario può incanalarsi sotto varie forme.
Maria Evelina Buffa l’ha riversato nella scrittura, e come Evelina Nazzari lo ha portato in scena più volte nel tempo, nel tentativo forse di esorcizzarlo, condividendolo.
Un evento innaturale, che scatena un dolore inenarrabile in cui si affolla una ridda di pensieri, di sensi di colpa, di interrogativi e di risposte altrui, pratiche o banali.
Immagini che ondeggiano, ora disperate, ora consolatorie, in un mare di carta immacolata, fragile e sgualcita, che, forse, nasconde qualche messaggio rivelatore.
Un desiderio spasmodico, sottile e penetrante, di realizzare la magia di invertire il corso del tempo, andare a ritroso, far rientrare il figlio nel proprio corpo non più giovane e tonico, farlo risalire lungo i canali della fertilità e riprogrammarne la nascita, facendolo riemergere alla vita fra nove mesi, donandogli un’esistenza libera dai fantasmi mentali e dalle angosce esistenziali.
La donna descrive una sinusoide di stati d’animo, sprofonda nella disperazione cupa, si rinchiude in una gabbia reale e metaforica, smonta un gigantesco fantoccio di carta sospeso, ripete i consigli prosaici che si è sentita rivolgere dalle persone che la incitavano a tornare a vivere e a sperimentare ancora l’amore, quello che può produrre un nuovo frutto dopo nove mesi.
Non c’è approdo al dolore, forse si può alleviare continuando a raccontarlo, ma non ci sono le parole, quelle adeguate per descriverlo. E non c’è nemmeno la definizione per indicare un genitore che ha perso il figlio. Orfano è chi perde il genitore, ma per chi perde il figlio il vocabolario non ha previsto una definizione perché non è una circostanza naturale, è inammissibile. Si può dire che una madre è orfana di suo figlio?
Nella dimensione onirica e trasognata di una vasta scena bianca, cosparsa di fogli bianchi stropicciati su cui incombe un pupazzo assemblato con cilindri di carta bianca pressata si muovono due donne vestite di bianco, una che urla la sua disperazione anche in faccia agli spettatori seduti intorno, l’altra che si lascia un po’ assoggettare e si rifugia in un altrove mentale che le dia quiete, “perché il dolore della perdita di un figlio è una bestia subdola e al tempo stesso feroce. Che non ti lascia tregua. Che ti segue come un’ombra soffocante, finché hai respiro”.
Le due facce di una madre, le due facce di un dolore incommensurabile che cerca le parole per esprimersi senza esaurirsi mai, emergendo nell’abbacinante e immacolata luce del sogno, o del delirio.
Immanente, corposa, reale, la gabbia scura di legno e corde al centro della scena, dentro la quale cercare confini al dolore.
Angelo Libri dirige Evelina Nazzari e Maddalena Recino, la scena è di Lodovica Cantono Di Ceva.
Tania Turnaturi