Un pannello, quasi un gigantesco cruciverba, è l’elemento scenografico (di Federico Biancalani) nel quale le parole si illuminano a scandire l’evolversi della vicenda, che in realtà si sviluppa a ritroso, a ritmo serrato.
Rappresentata a Londra nel 1978, Tradimenti del drammaturgo inglese Harold Pinter è ritenuta una delle opere più celebri del Premio Nobel per la Letteratura.
Sul tabellone si illumina la parola pub (saranno gli stessi attori ad accenderle e spegnerle di volta in volta). Emma e Jerry si incontrano nel locale due anni dopo la fine della loro relazione, tenendo in mano un cocktail per mascherare l’imbarazzo, farfugliano e si guardano impacciati. È il 1977 e iniziano a rievocare la loro storia vissuta tra Londra e Venezia andando indietro nel tempo fino agli albori della relazione nel 1968, quando Emma si era appena sposata con Robert, editore e miglior amico di Jerry che è agente letterario.
Brandelli di sentimenti squarciano le parole, creando una tensione che invade lo spazio in cui è racchiuso il ciclo di un amore, l’inizio che ingloba la sua fine, deteriorandosi nella reciprocità della relazione e nei rapporti tra marito e amante, ottimi amici che giocano a squash.
I dialoghi si rincorrono, stringati e sferzanti, ma le parole non dette incombono più delle verità rivelate e incassate con apparente noncuranza, e smentite dagli eventi. È un viaggio nel tempo passato e un viaggio interiore che elabora i ricordi, restituendo sensazioni difformi da quelle immagazzinate nella memoria individuale. Dalla memoria complessiva dei tre protagonisti frantumata attraverso aspri confronti, emergerà una realtà di tradimenti multipli. La relazione, vissuta per cinque anni in un appartamento in affitto, era apparentemente clandestina, poiché durante un viaggio in Italia Robert aveva costretto la moglie a confessare il tradimento col suo testimone di nozze, senza però farne parola con l’amico.
Il tradimento in tutte le accezioni è il vero protagonista, descritto da ciascuno a suo modo, quasi un mero accidente borghese in una evoluta società postsessantottina che legge Yeats.
Le sensazioni e le emozioni, discordanti dalle parole, vanno colte nei gesti e nei simboli: la bottiglia spruzzata sulla scena, la grottesca testa di alce con le corna ramificate che Robert indossa nel primo incontro con Jerry e poi lascia sul carrello colante bava, i sussulti del corpo di Emma sotto i calci sferrati da Robert nella rievocazione della scoperta del tradimento sulle note de “Il mondo” di Jimmy Fontana, un pollo calato dall’alto su cui Emma si accanisce con una fiamma ossidrica come se volesse dare alle fiamme il passato col suo corredo di insoddisfazioni, un lungo telo srotolato dalla donna da una borsa dell’Ikea, in cui si avvolge in una sorta di mimesi.
Liberatoria arriva la danza sessantottina di Emma, una lunga sequenza solitaria e primordiale, mentre Jerry sembra volersi annullare dietro il pannello luminoso e Robert guarda verso il pubblico, distante e in penombra.
Il dramma si chiude sulla pochezza umana di inganni e ipocrisie che preludono a una fine conseguenziale, che poi è l’inizio della rappresentazione.
La regia di Michele Sinisi impone un ritmo incalzante, come una partita di squash tra marito e amante, sull’onda di una variegata colonna sonora che comprende “Disco bambina” di Heather Parisi, brani di Madonna, Michael Jackson, gli A-Ha, i Duran Duran, The Clash, The Cure, Justice, che gli stessi attori attivano da una consolle in scena.
Sinisi riserva a se stesso il ruolo di Robert con una interpretazione potente e sanguigna, grondante cinico egoismo e rabbia fintamente trattenuta, mentre Stefano Braschi tratteggia un Jerry un po’ buffo e a tratti patetico, imbranato e disorientato e Stefania Medri percorre il registro caratteriale dalla leggerezza finale (del ’68) alla fredda determinazione iniziale (cioè degli ultimi anni).
Tania Turnaturi