Una signora del teatro europeo, Andrea Jonasson, torna a recitare in Italia illuminando la tetra atmosfera dell’interno borghese in cui si liberano i fantasmi della mente e del cuore della famiglia Alving, tenuti compressi per anni. Il disvelamento emergerà travolgendo le vite di tutti e le prospettive e i sogni dei giovani.
L’adattamento di Fausto Paravidino riduce il testo di Henrik Ibsen, rappresentato per la prima volta nel 1881, eliminando alcuni passaggi e ridimensionando alcune figure, mettendo in risalto il dramma esistenziale e familiare tra madre e figlio, come in una moderna tragedia greca dominata dal fato, in cui le colpe dei padri ricadono ancora sui figli.
In una cittadina norvegese, il reverendo Manders si presenta a casa Alving perché al probo capitano verrà dedicato un orfanotrofio, e si sofferma a chiacchierare con la domestica Regine prendendosi qualche libertà inopportuna.
Per partecipare all’evento in onore del padre, da Parigi è rientrato Osvald che riprende ad amoreggiare con Regine. Helene accoglie il reverendo scambiando con lui qualche considerazione sulla presunta rettitudine del marito che la rendeva infelice con la sua vita dissoluta tanto che la donna all’inizio del matrimonio cercò consolazione proprio tra le braccia del reverendo, che tuttavia resistette. Ci sono tutti i presupposti per rivelazioni insospettabili che sconvolgeranno esistenze inappuntabili, sul sottofondo dei tuoni di un tumultuoso temporale.
L’amore tra Osvald e Regine impone a Helene di svelare che la ragazza è la figlia che il marito ha avuto con una cameriera, fatta sposare al falegname Engstrand dietro lauta ricompensa. Regine scappa inorridita, mentre Helene non può più evitare di dar fondo all’orrore che ha sopportato, rispettando i canoni della morale borghese, con un uomo dedito a ogni genere di vizio e dissolutezza, liberando gli spettri che da anni agitano il suo animo. Anche Osvald ha un segreto da rivelare, la follia nella quale precipita la sua mente, che la madre sa essergli stata trasmessa dal padre, e le chiede di somministrargli una fiala di morfina. Il vaso di Pandora domestico trabocca senza salvare nemmeno la speranza, non c’è riscatto e non è possibile essere felici, come sottolinea il pastore luterano, ma vittime del destino.
In questo dramma borghese Paravidino sposta il focus dal conformismo sociale di Ibsen al dramma familiare che travolge i sogni e corrode la mente e la psiche, introducendo nei dialoghi riferimenti all’idea moderna di famiglia come luogo della condivisione di sentimenti anche laddove ci siano due madri o due padri.
Lo spazio della memoria in cui si sviluppano tutte le dinamiche si chiude intorno alla figura materna, una madre dolorosa seduta su una sedia con un drappo in testa al centro del palcoscenico, incombente come l’Annunciata di Antonello da Messina, muta testimone di una nuova dissoluzione. Le figure femminili di Ibsen, come Nora in Casa di bambola, aspirano all’emancipazione attraverso la verità.
“La verità è la cosa più difficile da rivelare, dice il regista Rimas Tuminas, e in questa produzione è ben rappresentato non solo il disvelamento di segreti familiari, ma anche l’esternazione dei fantasmi che si nascondono e vivono dentro tutti noi. I “fantasmi” sono illusioni che le persone costruiscono a partire dalle proprie debolezze, glorifichiamo le nostre paure e lodiamo le effigia dei nostri carnefici. I “fantasmi” sono le menzogne che adottiamo e che trasmettiamo ai nostri figli. Questo spettacolo è una storia di liberazione dai fantasmi che ci inseguono. Le illusioni collassano, crudeli verità vengono rivelate e l’immagine della famiglia ideale si frantuma rivelando ciascun membro per l’individuo libero qual è”.
Il regista lituano Rimas Tuminas inframmezza i dialoghi con pause e silenzi che alludono a quanto non detto espressamente, come momenti di possibile catarsi, che non avviene.
La scena di Adomas Jacovskis si ispira a uno scarno interno borghese, cupo e ammantato di fumo, con un grande specchio sospeso sul fondo nel quale Osvald e Regine riflettono la loro felicità e poi i loro fantasmi.
Helene è Andrea Jonasson, grande presenza scenica e interpretazione asciutta e intensa. La follia e la macerazione fisica di Osvald è ben resa da Gianluca Merolli, che canta anche Ridi, Pagliaccio di Leoncavallo per sottolineare la sua condizione. Fabio Sartor accentua con qualche atteggiamento macchiettistico il disincanto del pastore Manders, Eleonora Panizzo tratteggia l’ingenuità di Regine, Giancarlo Previati è suo padre Jakob Engstrand.
Lunghi minuti di applausi per tutti gli interpreti.
Tania Turnaturi