Il sodalizio tra lo scrittore Armando Pirozzi e il regista e direttore artistico del Teatro Metastasio di Prato Massimiliano Civica porta sulle scene questo nuovo spettacolo incalzante e ben scritto, prodotto proprio dal Metastasio.
L’atto unico, il cui titolo è mutuato dalla traduzione di Eduardo in napoletano antico della frase di Shakespeare ne “La tempesta”, raccontando una storia di famiglia esprime un grido d’amore e di dolore per il teatro, in una notte di pioggia nella quale un padre, vecchio attore caduto in disgrazia, vuole liberarsi dai sensi di colpa nei confronti della figlia trascurata per inseguire i sogni di gloria.
Carmine giunge a casa della figlia Barbara che lo accoglie con scostante freddezza, offrendogli solo la possibilità di ospitarlo per la notte su un tappeto nella veranda. L’uomo tenta di spiegarle che ha passato la vita a sognare, anzi a sperare, che arrivasse l’occasione giusta per agguantare fama e ricchezza e intanto coltivava tanta fede perché credere nell’arte del teatro è una religione, ma la figlia gli rinfaccia di essere un buffone con l’aspetto di un barbone.
Carmine si aggrappa alla sua arte, cita Shakespeare, con la pioggia battente evoca La tempesta e il mago Prospero con cui condivide l’assunto che “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, blandisce la figlia dichiarando che Barbara è un nome aspro scelto dalla madre mentre lui avrebbe preferito Miranda, come la figlia di Prospero.
La donna lo deride quale misero attore di cabaret e gli impone di dormire all’addiaccio.
Tra il sonno e la veglia gli appare un uomo che immagina essere se stesso da giovane, quando coltivava sogni di successo e desiderio di famiglia. È il suo allievo Rocco, con cui intesse un dialogo sulla vocazione per il teatro a cui si sacrifica tutto, anche l’amore dei figli che detestano i padri attori poiché non ne capiscono il talento.
Il padre non ha dato a Barbara l’amore che lei avrebbe voluto, ma anche Carmen non ha ricevuto dal teatro la gratificazione che avrebbe meritato. La passione per l’arte forse è illusoria, produce fallimenti e incide pesantemente sulla realtà.
È una resa dei conti con la paternità biologica non risolta e col mestiere di attore che fagocita la vita, fino alla catarsi finale in cui si ribadisce la necessità di assolvere gli errori per non sentirsi soli.
“Possano tutti gli esseri viventi restare liberi dal dolore” è l‘invocazione finale, secondo la formula che in India si usava alla fine degli spettacoli.
Renato Carpentieri attraversa tutto il registro della comunicazione verbale attoriale, dal tono farsesco del cabarettista col naso rosso alle citazioni colte di Re Lear e Amleto mediate dal dolore del fallimento umano e professionale. Lo accompagnano, sempre presenti sulla scena priva di quinte arredata semplicemente con un tappeto un baule e una poltrona di vimini, Vincenzo Abbate l’allievo che asseconda il maestro in tutte le sue esternazioni e Maria Vittoria Argenti la figlia che contrasta il padre per ogni rivelazione.
Carpentieri è stato già protagonista del film omonimo per la regia di Gianfranco Cabiddu, ispirato a due opere di Eduardo “L’arte della commedia” e “La tempesta” trascritta in napoletano, dove si racconta tra sogno e finzione la magia del teatro che va incontro alla vita raccontando e sublimando la realtà.
“La fantasia è un’isola in cui, di tanto in tanto, tutti noi ci rifugiamo per curare le ferite che la realtà infligge al nostro ego: lì torniamo ad essere “il protagonista della festa” e viviamo quella vita piena di avventure che da bambini eravamo convinti ci fosse destinata – afferma il regista Massimiliano Civica – il protagonista de La stoffa dei sogni è un vecchio attore che invece sull’isola della fantasia ha voluto passare tutta la vita, sperando di conquistare il centro della “scena”, fuggendo via dalle noie, dalle responsabilità e dai compromessi che vivere accanto agli altri, nella realtà, comporta. La scelta tra sogno e realtà è lo scacco matto che la vita fa a tutti noi”.
Tania Turnaturi