Quanto mai fedele alla sua missione programmatica l’edizione XIX del Festival “Opera
Prima” di Rovigo. “Diciannove”, ovvero l’arcano del Sole secondo i Tarocchi, che da tradizione cadenzano l’iconografia della kermesse rodigina, sostenuta con tenacia e passione dall’intera compagine del Lemming: un corpo tentacolare di artisti, tecnici e volontari che si dona con dedizione indefessa lungo i molteplici snodi di un “cartellone” labirintico, fatto di incontri ed interviste, installazioni e percorsi esperenziali, performance brevi e spettacoli long format.
“Diciannove” vuol dire anche fatalmente un’edizione liminale, nata come zona di transizione
tra memoria e proiezione, predisponendo di già il terreno per quello che sarà il ventennale di “Opera Prima”. Restando alla materia della visione, tale condizione di liminalità traccia una analogia con quegli scatti fotografici che fermano l’artista nell’atto di un salto. Una tensione dinamica che tematicamente parla al futuro, ma che nella sua sostanza genuinamente effimera definisce molto più propriamente la dimensione del presente. Ed ancor meglio definisce il teatro: arte del qui ed ora, che nel momento attuale e condiviso tra artisti e spettatori può contenere ogni contaminazione di segno senza temere adulterazioni.
La premessa di queste righe è solo apparentemente retorica, dato che la riflessione sul senso del teatro oggi è il momento che apre ufficialmente questa edizione diciannovesima di “Opera Prima”, con una tavola rotonda condotta da Massimo Munaro in collaborazione con la redazione de “La Falena”, semestrale del Teatro Metastasio di Prato.
Nuovissimi argomenti di criticità – come la perdita di attenzione prodotta nella percezione dall’uso diffuso dei device digitali, la rarefazione della comunicazione per effetto dei social media, a loro volta impostisi come vera e propria appendice organica della realtà nel biennio pandemico, ed infine le ombre proiettate dal recente manifestarsi dell’intelligenza artificiale – non possono che aggiornare ancora una volta l’osservazione sulla fragilità genetica dell’arte teatrale, che è dunque ad un tempo garanzia della sua resistenza e conferma della sua necessità per la costruzione di senso nella società contemporanea.
Ma le risposte più dirette vengono naturalmente dagli spettacoli, che anche quest’anno hanno colorato i diversi punti della città. L’intreccio con il tempo ordinario della comunità è uno dei tratti forti del festival, con lavori scenici di grande energia corale, (sovra)-esposti al di fuori di ogni cornice convenzionale: proposti in orario pre-serale, denudati dalla piena luce del giorno, consumati sul selciato delle piazze principali della città contemporaneamente attraversate dal normale flusso di shopping ed aperitivi.
Ebbene, una performance coreografica come Dunajina, del giovanissimo ungherese Roland Géczy, accompagnato da un trio internazionale di danzatrici pari età, supera di slancio i confini dell’esperimento urbano o della simpatica provocazione, grazie ad un linguaggio espressivo di sorprendente compiutezza e maturità.
Stesso dicasi per i versi del Terzo Canto dell’Inferno dantesco recitati dagli studenti del Liceo Scientifico di Rovigo, guidati da Diana Ferrandini in uno studio d’ambiente per la regia di Massimo Munaro. A colpire qui è l’acquisizione del segno dialogico della parola teatrale, anche all’interno di un testo composto in versi: la ricerca fisica – oculare e corporea – di un interlocutore, che riceva e partecipi la battuta, è la materia primaria di una recitazione autentica, che non ceda alle facili tentazioni della mera declamazione.
“Opera Prima XIX” ci rende la fotografia di una scena contemporanea caratterizzata da due
vettori di forza evidenti: – la ricerca di un linguaggio scenico sempre più globale, universale. Lo si nota nella predominanza di lavori basati sul codice corporeo o in cui la parola rifugge i confini della pura drammaturgia, cercando spesso contaminazioni con il terrirorio musicale (si vedano le performance di Ludovica Manzo o la spoken word utilizzata da Cartocci Sonori nel loro RAP – Requiem al Poeta); – la missione dello spettacolo come esperienza umana e curativa, per un teatro che interiorizza con particolare vocazione empatica il grido di dolore dell’umanità, osservato nelle sue diverse declinazioni: dalla malattia alla diversità (Brave di Paola Bianchi e Valentina Bravetti) al disagio generazionale (Still Alive di Caterina Marino) alla privazione della libertà (Al-Jahim di Slowmachine).
Into the Blue di Danielle Huyghe intreccia una pluralità dei motivi menzionati. La
coreografa belga (coadiuvata in scena da Jill Kupers) trasferisce tutta la dolorosa complessità legata ai disturbi del sonno dalla dimensione narrativa e confessionale (verso cui la indirizzerebbero i canoni tradizionali) a quelli non verbali dell’immagine filmica e della danza. La scena è infatti bipartita, duplicemente giocata tra la verticalità di uno schermo cinematografico e l’orizzontalità del palcoscenico. Due piani che si attivano secondo tempi separati, per una dualità che si replica nella presenza delle due performer in scena.
Lavoro minuzioso, ricco di dettagli, che nel suo insieme lascia affiorare alcuni punti di riflessione: il trattamento corporeo conferisce al tema affrontato la possenza espressiva come colorazione dominante; ogni sottigliezza immateriale di implicazione psicologica viene resa tramite il parossismo di corpi che non conoscono requie. Un tappeto sonoro, ora nervoso ora esplosivo, unito alla definizione dei primi piani espansi sul maxischermo, contribuisce a completare il risultato paradossale di uno spettacolo ad alto tasso spettacolare, che nel suo dipanarsi secondo meccanismi sincronici sempre più perfetti tende a produrre nello spettatore un processo quasi ipnotico e suasivo, allontanando progressivamente il senso d’inquietudine iniziale.
Dal disagio come risposta dell’intelligenza corporea di fronte ai mali tipici del nostro tempo
alla materia medesima del tempo tout court. Michele Sambin riprende la sua storica performance Il Tempo Consuma (1978), per sovrascriverla in scena dopo venticinque anni, mescolando la materia viva del corpo solcato dai giorni e la meccanicità della video-ripresa. L’acritica capacità d’esecuzione del medium tecnologico viene “scherzata” con le chiavi umane-troppo-umane dell’improvvisazione e dell’autoironia. Allora, il senso dolcemente malinconico di un passato che inesorabilmente sbiadisce e si perde nell’oceano dell’oblio viene surclassato dall’invadenza di un presente che prolifera in stratificazioni incessanti. Non è il tempo degli anni, delle nostre età a consumare il senso di presa sulla vita che fugge. Non il tempo delle decadi, né quello glorioso dei secoli, bensì il tempo minimo dei minuti, dei secondi, dell’immediato prima. Ma se la vita si consuma già tutta nel momento presente, ecco che il teatro – l’arte del qui ed ora – diviene dimora e farmaco per il senso di un’esistenza geneticamente malata di smarrimento.
Anche una scena vuota, priva di attori, come quella elaborata dal collettivo MOMEC per
l’installazione Terzo Tempo. Uno spazio abitabile, riempito con equilibrismo tra ordinario accumulo ed attenta selezione: una sedia, un tavolo, piante domestiche. E poi cartoline, gagliardetti … libri che non prescrivono né significano, semplicemente posano su ripiani, carichi di una casualità totemica, come petali alla mercé sapienziale del vento. Oggetti depositati dalla leggerezza delle azioni che – grano su grano – sedimentano le nostre vite, costruiscono il nostro tempo denso. Lacerti appartenuti a momenti e mani altrui, che pure possono attivarsi proustisanamente, trasformandosi all’istante in memorabilia profondamente nostri, privati, esclusivi.
La voce siderale di Ludovica Manzo giunge a nutrire come placenta il perdurare di questo
sentore labirintico, a cui abbandonarsi con fiducia innata come ad un flusso di natura, una fase lunare. Mistericamente, la performance-concerto Serpentine raggiunge questa freschezza primigenia facendo un impiego massivo di strumentazioni tecniche, moltiplicato in un’eco sinestetica dalle immagini video create da Loredana Antonelli.
Una fuga perfetta quanto spontanea dall’omologazione espressiva che è forse l’indicazione più significativa di questa edizione decimo-nona di “Opera Prima”, che esplode spettacolarmente con la visionarietà della Cassandra (Stefania Tansini) riletta dai Motus in Of the Nightingale I envy the Fate e che trionfa in misura roboante nello straordinario Fictions di Annabelle Dvir e del suo Women of Sounds Ensamble (Israele).
CREDITS:
Festival OPERA PRIMA – Edizione XIX
Progetto e Direzione: Associazione Festival Opera Prima
Coordinamento Artistico: Massimo Munaro
Amministrazione e Logistica: Katia Raguso
Organizzazione e Ufficio Stampa: Diana Ferrandini
Grafica e Comunicazione: Marina Carluccio
Staff Tecnico: Alessio Papa, Roberto Lunari, Matteo Fasano, Paolo Rondo, Silvia Massicci
Assistenza: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Leonardo Piana
Biglietteria e Prenotazioni: Elena Fioretti
Programma del Festival: https://www.festivaloperaprima.it/it/
Calendario Spettacoli: https://www.festivaloperaprima.it/it/edizione-xix-2023/calendario