Al Teatro dell’Opera di Roma va in scena uno dei debutti più attesi della stagione, Die Zauberflöte di Mozart, nell’allestimento di gran successo della Royal Opera House. Ora, il fascinoso allestimento londinese, che ricrea le incredibili suggestioni del magico universo mozartiano in un grande gioco visivo, fra eleganti costumi del Settecento, allegorie e simboli massonici, rende non solo al meglio la tradizione, ma anche l’innovazione di questo Flauto, che ben si presta a innumerevoli rivisitazioni di ogni genere. La rilettura è apparentemente tradizionale (l’inizio con il mostruoso serpente, tanto per citare un elemento), ma riserva alcune sorprese (a cominciare dalle sfere luminose, simbolo dell’iniziazione e della verità, che scendono in platea sull’Ouverture) o nell’azzardo di trasformare Monostato (un moro) in un bianco aristocratico in abiti settecenteschi con tanto di gruppetto di scapestrati, folli seguaci. Quel che è chiaro è che la regia dello scozzese Daniel McVicar riesce a destreggiarsi con equilibrio fra la continua ambivalenza dell’opera, mostrando chiaramente come sotto l’apparente fiaba giocosa e (quasi) innocente si celino inaspettati risvolti filosofici. Anzi, a ben guardare, fra il fiabesco e il misterioso, fra cui emergono inquietanti simboli massonici, McVicar (folgorato dal Flauto di Ingmar Bergman) ha voluto evidenziare principalmente gli aspetti, più oscuri e conflittuali della ben nota vicenda che si muovono su una partitura (è l’ultima opera di Mozart) indissolubilmente legata ai misteri del celeberrimo Requiem. Di qui assumono valore eccezionale le magnifiche e oscure scenografie di John McFarlane (suoi anche i costumi) a tratti quasi opprimenti che si muovono fra grandi palazzi, alberi sovrapposti, misteriosi boschi con animali feroci, fino al grandioso cielo blu e nero con il sottile spicchio di luna o al sole abbagliante. Di qui anche i ricercati costumi di foggia settecentesca (dai colori canonici, con il virginale bianco di Pamina, il nero della Regina, il rosso per Sarastro etc.) che abbracciano fedelmente il periodo di composizione dell’opera. Scene e costumi ad hoc vengono eccezionalmente illuminati da Paule Constable che regala un quid fascinoso a ciascun elemento in scena.
La regia di McVicar è solo apparentemente semplice, ma in realtà risulta di grande effetto (anche nella grandiosa scena finale con l’ottimo Coro del Maestro Gabbiani) in ogni momento dell’opera. D’altra parte l’allestimento soddisfa le attese di ogni elemento della favola mozartiana, ma sorprende di continuo il pubblico per la raffinatezza delle affascinanti soluzioni visive (dal carretto volante con le gigantesche ali che conduce i tre fanciulli, alle abbaglianti scene della Regina della Notte fino allo svelarsi progressivo di simboli massonici). Nitida e regolare la direzione del giovane statunitense (35enne) Erik Nielsen (anche se forse un po’ carente di pathos), ma in compenso però il cast è giovane, variegato e molto convincente, a cominciare dalla sorprendente Pamina di Hanna-Elisabeth Müller dalla voce angelica, vera rivelazione della serata. Markus Werba nel ruolo dell’uccellatore Papageno è una magnifica sintesi di buffa presenza scenica (ma senza strafare nei lazzi che stonerebbero con il tutto) e voce importante. Bravo il tenore sudamericano, il giovane Juan Francisco Gatel, incisivo il Sarastro del baritono Peter Lobart, mentre la Regina della Notte Hulkar Sabirova accusa più di qualche problema nei terribili sovracuti (nell’aria Der Hölle Rache). Fragorosi gli applausi del numeroso pubblico che mostra di gradire, e non poco, uno spettacolo edificante e di grande fascino che regala nuova linfa vitale a uno dei capolavori del genio di Salisburgo. Dopo il debutto del 27 marzo, si replica fino al 1 aprile.