“La Scuola di Herat in esilio” è un evento in cui il teatro si riscopre nella sua funzione originaria di luogo in cui la comunità si aggrega e torna ad essere tale, pone al centro un messaggio da condividere e da compenetrare tramite lo strumento del rito e della rappresentazione. Quando lasceranno il teatro, attori e spettatori si troveranno reciprocamente, umanamente vicini, trasformati nelle loro persone.
Il lavoro di scena è l’esito di un laboratorio teatrale condotto da Anna Paola Vellaccio con un gruppo di studentesse e di studenti afgani salvati dal regime talebano e condotti in Italia tramite un corridoio universitario attivato dalla prof. Mara Matta, coordinatrice del corso di laurea in Global Humanities presso l’università La Sapienza di Roma. Dopo alcune repliche, lo spettacolo è andato in scena a Pescara nell’ambito del FLA 2023, Festival di Libri e Altre cose, giunto alla ventunesima edizione.
Il palcoscenico dinamico dello Spazio Matta è abitato come un quadro colorato che ritragga una scena di ordinaria quotidianità. Pochi elementi dalla forma immediatamente riconoscibile: un pallone, un casco da parrucchiera, un bidone in metallo scuro, un cavalletto da pittura. In proscenio un cumulo di terra, al centro la sagoma discreta di due ragazze sedute mentre chiacchierano e armeggiano con un quaderno; da un lato giunge una melodia sottile irradiata da strumenti esotici, dall’altro c’é chi suona un tamburello. Ognuno è impegnato in un’azione, oppure guarda l’azione altrui nell’atto del suo compiersi, ascolta quello che gli altri dicono o intonano.
Nessun particolare si impone sull’effetto d’insieme, come avviene in una normale scena di strada. Come dovrebbe avvenire, per essere più precisi. Entriamo dunque nel quadro della rappresentazione: siamo a Herat, città lontana nello spazio e nella nostra coscienza, ma la scena potrebbe essere ambientata in una qualunque strada di una qualunque città italiana, europea, occidentale.
L’insieme lascia repentinamente spazio ai singoli, come in un passaggio filmico dal campo lungo al primo piano: singoli volti, singole voci e singole storie. Ci parlano nella loro lingua madre, leggendo da fogli di quaderno piegati più volte, quasi come documenti da custodire in segreto per essere nascosti subito in tasche interne, lontane alla vista. Sono giovani, poco più che ventenni. Sono in tanti, più di dieci, sulle assi del palco, ma il loro essere lì ad un passo da noi spettatori ci comunica immediatamente, tacitamente che molti di più sono quelli che sono rimasti indietro, a Herat, dietro un confine geografico che il regime talebano ha trasformato in prigione, specialmente per le donne.
La cesura fra questi due momenti è riempita da un frastuono violento ed improvviso: potrebbe essere un’esplosione, potrebbe essere un banale petardo, uno sparo o la caduta di un grosso oggetto. Noi questo non possiamo saperlo, non possediamo questo grado di discernimento. Solo chi ha subito, solo chi ha fatto esperienza della violenza armata può distinguere, e lo fa con l’intelligenza della pelle e del corpo, con il primordiale istinto di sopravvivenza, senza ricorrere al tramite del raziocinio.
Ci parlano nella loro lingua madre, sfidando le leggi più basilari della comunicazione, escludendoci ad una comprensione tradizionale e razionale, ma è questa la chiave della messinscena. Le testimonianze riportate da ciascuna delle giovani voci non sono state violate dall’artefazione, plasmate stilisticamente o uniformate in nome di un codice teatrale. C’è chi parla a lungo, chi si limita a poche parole, chi utilizza uno stile poetico, chi la cronaca fattuale. Si percepiscono i caratteri personali, la gestione e l’espressione del dolore, che è diversa per ognuno.
Poi, interviene la “regola” della comunità che il teatro edifica: un secondo foglio, vergato a mano, composto in una lingua italiana non emendata, che ancora mostra i solchi del passaggio interculturale, viene consegnato ad uno spettatore, che a sua volta lo condivide a voce alta con il resto del pubblico.
Anna Paola Vellaccio cuce con misura e discrezione i singoli capitoli di un discorso che si dispiega in varie direzioni, come il tessuto di un vestito creato al momento. Stordisce l’orrore del male perpetrato dall’uomo, sorprende l’insopprimibile resistenza di un’anelito intatto di libertà e felicità. Un desiderio irrinunciabile ed indomabile, di vivere a pieno e non solo di accontentarsi di sopravvivere, di comporre versi e cantare canzoni, di immaginare giorni di sole.
Paolo Verlengia
CREDITS:
“La Scuola di Herat in esilio”
di e con Anna Paola Vellaccio
e con gli studenti e le studentesse afgane del corso in Global Humanities dell’Università “La Sapienza” (Roma)
coordinamento Mara Matta e Morteza Khalegi
collaborazione artistica Giulia Basel
Produzione Florian Metateatro e Festival Quartieri dell’arte (Viterbo)
Florian Metateatro, Stagione 2023/24 “Teatro d’Autore ed altri linguaggi”
FLA XXI Edizione – Festival di Libri e altre cose, 9-12 novembre 2023 – Pescara