Lo scontro con il potere, la supremazia della libertà. È il tema del dramma di Thomas Stearns Eliot, drammaturgo statunitense Nobel per la Letteratura. Alla tragedia greca si ispira questo dramma, scritto nel 1935 ma impostato come una tragedia classica che affronta temi universali, in cui si contrappongono il potere temporale di Re Enrico II d’Inghilterra e il potere spirituale dell’Arcivescovo di Canterbury.
Sul modello del teatro greco, il coro esegue il primo canto (la parodo) per introdurre la vicenda, che si svolge tra il 2 e il 29 dicembre 1170, esprimendo gravi timori. Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, è tornato dopo sette anni di permanenza in Francia.
Entrano in scena tre sacerdoti che discettano sul pericolo derivante dall’accrescimento del potere temporale del re. Sopraggiunge Becket che manifesta la ferma volontà di seguire i principi cristiani del suo magistero, e con rassegnata consapevolezza si vota al martirio.
L’interludio si svolge il giorno di Natale, con l’arcivescovo che declama un erudito sermone sul significato spirituale della nascita di Cristo e sul valore del martirio, preconizzando che presto i cristiani potrebbero avere un nuovo martire da commemorare.
Quattro giorni dopo tre tentatori in moderni abiti neri si recano dall’arcivescovo accusandolo di tradimento e suggerendogli come resistere al potere del re e salvarsi, ma Becket rifiuta, ribadendo la scelta etica di rimanere fedele ai principi professati e al Papa, di non oltraggiare l’appartenenza alla chiesa e di immolare la propria vita per coerenza col ruolo di sacerdote e con la libertà della coscienza. Ancora più subdolo il quarto tentatore che, celato da un ampio mantello nero, gli gira intorno sussurrando parole persuasive nel tentativo di circuirlo e farlo capitolare.
“La fine sarà data da Dio” esclama Becket, affidando il suo destino e il suo cuore all’Essere Supremo.
La resistenza dell’arcivescovo alle pressioni di chi lo induce a rinnegare i propri valori ha il suo epilogo nel sacro spazio della cattedrale, dove tre oscure figure lo uccideranno. Lasciatolo a terra, si rivolgono alla platea illuminata da un faro sostenendo la necessità di quell’azione per impedire alla Chiesa di minare il potere dello Stato. Non di assassinio si tratta, ma di libera scelta della morte, di cui non è responsabile il re, che ha solo espresso disappunto per la scelta di Becket, ma tutti sono responsabili. Il potere si dichiara così, manipolatorio, ricattatorio e ambiguo e si autoassolve.
Scritto nel 1935, il dramma universalizza l’opposizione ai regimi autoritari, e la vicenda storica diviene metafora dell’imminente pericolo nazifascista.
Il linguaggio di Eliot, come è caratteristico della tragedia greca, è altisonante, nobile e poetico, declamando sentimenti, furori, tradimenti che trovano in Moni Ovadia un cantore di forte tensione emotiva. Imponente, solenne e maestoso nella sua tunica bianca declama con voce tonante la libertà di scegliere l’osservanza dei principi cristiani. Ovadia, interprete affermato della tradizione ebraica e della cultura yiddish in Italia, attore, scrittore, regista e musicista, si impossessa dell’anima eroica di questo arcivescovo che incarna la lealtà a Cristo e alla chiesa.
Marianella Bargilli ha il doppio ruolo di corifea e del suadente quarto tentatore. Agostino Zumbo, Giovanni Arezzo e Rosario Minardi sono gli altri interpreti.
La regia di Guglielmo Ferro asseconda la contrapposizione tra la vicenda umana di un uomo di fede e l’ineluttabilità della Storia.
Essenziale la scenografia, che proietta sul fondale l’architettura dell’ambientazione.
Scrive Guglielmo Ferro nelle note di regia: “Mai come oggi, il capolavoro di Eliot, rappresenta una testimonianza senza tempo sul rapporto fra opposti, nel cuore della civiltà occidentale: Potere Temporale e Potere Spirituale, Ragione e Fede, Individuo e Stato. Libertà e Costrizione. Non a caso, rappresentato nel ’35 proprio nei luoghi della vicenda reale, il dramma sembra raccontare più l’ascesa ed il pericolo del nazismo, che le vicende dei Plantageneti.
Oggi, il nostro allestimento, la nostra versione del dramma, mira appunto a questa “trasversalità” storica; a questa “atemporalità”, orientata a togliere la matrice specifica a questo conflitto, restituendola ad una dimensione più generalmente estesa.
Una rotta precisa, un percorso fatto di convincimenti profondi. Una scelta confermata anche dalla presenza di un Maestro del Teatro Civile più genuino che il nostro Paese esprime in questo momento: Moni Ovadia. Artista, attore, “cantore dell’impegno”, che – anche – nella sua appartenenza alla cultura “yddish”, suggerisce una polifonia di linguaggi ed istanze antropologiche, oltre che storiche, civili e sociali”.
Tania Turnaturi