“Sul palco ritrovo la felicità, il sogno e la cura” sono le parole con cui Concita De Gregorio, giornalista e scrittrice di successo, parla del suo debutto da attrice nel ruolo di una delle tre protagoniste del testo teatrale scritto, nel 2011, da Lucia Calamaro, in scena al Teatro Argentina in una versione rivisitata prodotta dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale.
Nel personaggio che interpreta c’è sicuramente qualcosa di sè che la fa apparire estremamente credibile e a proprio agio. I dialoghi si svolgono in un interno familiare in cui ciascuno di noi può identificarsi in virtù di quei legami casalinghi in cui si nasce e si capita, fondamentali e crudeli ma anche ironici e giocosi.
Al centro della pièce c’è un terzetto familiare (madre, figlia e nonna), tre generazioni messe a confronto. I personaggi sono la madre, Concita De Gregorio (Concita anche sulla scena), una letterata amante di libri che non riesce più a relazionarsi con la vita, soffre di una forma di depressione che le impedisce di uscire di casa e di affrontare anche le più semplici incombenze. Gli unici frammenti di socialità le sono offerti dalle incursioni al supermercato e dalle bonarie discussioni ingaggiate con i parenti. E’ “come un congegno rotto”, dice, ed è irresistibile quando, per descrivere il proprio stato d’animo, accosta in modo autoironico il termine “stanco” nel significato di esausto, sfinito, spossato, demoralizzato alla sua traduzione in latino “fessus”.
E poi c’è il frigorifero, vero comprimario del primo atto, l’unico a colmare il nonsense quotidiano e a offrirle rifugio e consolazione durante le notti insonni.
Nel secondo e nel terzo atto la scenografia è protagonista. Lucia Calamaro realizza una vivace ambientazione Pop Art dai colori sgargianti, con elettrodomestici da modernariato anni ‘50 e oggetti di uso comune color pastello che, insieme al disegno luci, contribuisce a sdrammatizzare quel contesto familiare e conferisce leggerezza e umorismo alle elucubrazioni psicologiche che nascono dal confronto tra la figlia-analista e la madre-paziente.
Dal canto suo, la figlia Alice (Alice Redini), con la freschezza dei suoi anni e una verve comica da funambola delle parole, tenta di ristabilire un senso di realtà; cerca di trainarla fuori dal suo universo di disordine mentale e di chiusura verso il mondo esterno. Invece, la nonna (Lucia Mascino), si muove e interagisce da autentica mattatrice, è la voce della realtà, sbraita e incita la figlia a reagire per uscire da quello strazio, la esorta a sorridere e a smettere di analizzare tutto, soprattutto le cose più insignificanti.
Lucia Calamaro, vincitrice del Premio UBU 2012 per la drammaturgia, sceglie con cura ogni parola e compone una cartografia umana di traumi, angosce, nevrosi che racconta, attraverso le sue interpreti di prim’ordine, in modo attraente e mai banale, sentimenti come la solitudine, il dolore, la noia. La sua cifra stilistica è l’ironia, si ride sempre, anche se si parla di temi difficili come la depressione, arrivando a divertire in modo intelligente e a commuovere nello stesso tempo.
Roberta Daniele