Nel centenario della morte del deputato socialista rapito e ucciso dai fascisti il 10 giugno del 1924, l’attore e autore Maurizio Donadoni riporta in scena il suo documentario teatrale che ne ripercorre la vicenda storica, politica e umana. Giacomo Matteotti è il quarto personaggio dopo Garibaldi, Marconi e Dante al quale sono dedicati vie e piazze, ma pochi conoscono la storia dell’uomo che col suo sacrificio ha indicato la via della libertà. Tra le donne, la prima nella toponomastica è Grazia Deledda, ben oltre la centesima posizione.
Sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma, il deputato viene rapito da un gruppo di fascisti guidati da Amerigo Dùmini detto “dodici omicidi”, una squadra della cosiddetta “Ceka fascista” voluta da Mussolini per tacitare gli oppositori. L’indignazione provocata dal delitto sembrò compromettere le sorti del partito fascista, ma il ritiro dal Parlamento delle opposizioni rafforzò il potere di Mussolini che poté impunemente dichiarare di assumersi tutta “la responsabilità politica, morale, storica” (dimenticando “penale”) di quanto era avvenuto, cui seguì l’approvazione delle “leggi fascistissime”.
Il racconto intreccia la vicenda politica di Matteotti con quella umana e familiare nel rapporto intenso con la moglie Velia, con cui scambiò oltre 650 lettere in dodici anni, e i figli Giancarlo, Matteo e Isabella coi quali amava giocare. Deriso per la sua condizione di ricco borghese, definito sprezzantemente ‘social milionario’ da Mussolini, sosteneva le istanze dei contadini del natio Polesine e affrontava gli scontri verbali e fisici con i fascisti.
Donadoni (indossando cappotto, vestito, gilè e camicia neri) intesse il canovaccio dell’esistenza umana ripercorrendo i momenti più significativi, dall’infanzia felice a Fratta Polesine con i fratelli Silvio e Matteo nella bottega di ferramenta del padre Girolamo e della madre Elisabetta, alla laurea in giurisprudenza, alle prime lotte politiche in difesa dei contadini e la continua professione di antifascismo in Parlamento. Istrionico e affabulatore, alterna stacchi musicali suonando la tromba, cantando ballate e canzoni degli anni ‘20, marcette squadriste e stornelli razzisti, e imitando le molteplici voci del popolo che esprimeva commenti e popolaresca saggezza, accompagnate dalle musiche da ballo e canzoni d’amore diffuse dalla radio (che nell’ottobre del ‘24 cominciava le sue trasmissioni).
Fino a quel 10 giugno 1924 quando, pochissimi giorni prima del suo discorso alla Camera sulle illegalità del nascente regime, viene rapito, caricato su una Limousine Lancia Kappa 2535 blu e ucciso, forse accidentalmente nella colluttazione che ne seguì, imbrattando il sedile della vettura. Alla moglie recatasi a reclamare il corpo del marito, Mussolini risponde che c’era ancora speranza, pur sapendo che fosse già morto. Il corpo viene trovato due mesi dopo malamente seppellito in una buca inadeguata nella campagna di Riano.
Donadoni attinge dai documenti dell’Archivio centrale dello Stato la dichiarazione resa da Velia al giudice istruttore su come era vestito il marito quando uscì da casa per recarsi nella biblioteca del Parlamento. Lo attenderà tutta la notte, al mattino porta fiori sul luogo del rapimento, poi altri ne recheranno in muto pellegrinaggio, nonostante l’ordinanza che lo vietava e i carabinieri li buttavano nel Tevere. Donadoni dichiara che avrebbe sì portato fiori sul lungotevere all’epoca, ma forse non avrebbe avuto il coraggio di usare il corpo come mezzo di resistenza “per difendere il diritto di andare dalla parte opposta, che è uno dei diritti fondamentali della democrazia”. Coraggio che hanno ancora alcuni eroi contemporanei per esprimere dissenso, come Aleksej Navalny, al quale il regime ha tentato di vietare l’omaggio postumo dei fiori. Il processo comminerà pene lievi e ricompense per gli autori del delitto.
Piccoli aneddoti, curiosità sull’uomo, che era uno sportivo, amava fare canottaggio, aveva la macchina e la sua patente era la numero 18 della provincia di Rovigo, giocava con i figli portandoli a cavalcioni sul pavimento chiamandoli con soprannomi.
Un effluvio di parole in tono confidenziale, come un racconto intimo a tratti interrotto da battute contingenti rivolgendosi direttamente a qualcuno tra il pubblico, riprendendo il filo del racconto con immutata empatia. Maurizio Donadoni è instancabile e coinvolgente, racconta, canta, suona e rende tangibile la forza dirompente di un ideale di giustizia sociale che la morte non poté sopprimere, perché non si possono uccidere le idee. Tanto che, esaurito il copione, continua a intrattenersi con il pubblico esprimendo opinioni personali, come si fa in una serata tra amici che ricostruiscono la Storia.
Il gioco di luci di Pietro Bailo illumina o lascia in penombra gli elementi scenici: uno stilizzato e intuitivo profilo del duce, risme di giornali dell’epoca, sedie disposte circolarmente, un telo su cui scorrono immagini. Scene e costumi degli studenti del Biennio di Scenografia dell’Accademia di Brera coordinati da Edoardo Sanchi. Un attore, molte voci per la regia di Paolo Bignamini sotto le volte della navata centrale della cripta della Scala Santa ricoperta da mattoni a vista, scenografia naturale per un racconto intimo.
Tania Turnaturi