Al Teatro Argentina di Roma fino al 22 dicembre 2024
Gabriele Lavia porta in scena Re Lear, dopo oltre cinquant’anni dal debutto del 1972 nel ruolo di Edgar nello spettacolo diretto da Giorgio Strehler.
Un grande telo grigiastro funge da fondale, copre il palcoscenico e scende fino in platea, cosparso di sedie rovesciate e bauli (scene Alessandro Camera). È la cupa e decadente atmosfera che prelude alla tragicità della vicenda narrata da Shakespeare.
Come sagome nere entrano in scena gli attori, che traggono dai bauli sontuosi mantelli, abiti di scena che non ne differenziano il ruolo, tranne Lear che indossa anche la corona (costumi di Andrea Viotti).
Sulla sinistra un teatrino in miniatura ammonisce circa la finzione della rappresentazione.
Il conflitto fra padri e figli scava negli abissi del cuore, facendo affiorare la malvagità istintiva e la tenerezza che deve passare dalla cruna della follia per essere apprezzata.
La vicenda seicentesca del vecchio re bretone, che per egoismo e vanità misura l’amore delle figlie dalle lusinghe espresse con parole suadenti, donando loro in proporzione il proprio regno ricevendone ingratitudine e abbandono, è paradigma dell’impossibilità di piegare alla virtù la smaniosa brama di potere e di coniugare vecchiaia e saggezza: “Gli uomini non sono né migliori né peggiori dei tempi in cui vivono”.
Goneril e Regan titillano la vanità del vecchio genitore, che vuole essere arbitro del loro destino, adulandolo come egli si aspetta. Cordelia, consapevole di sé e fiduciosa delle proprie scelte di vita, rivendica il diritto di far posto nel suo cuore anche all’amore per un marito. Verrà sciaguratamente diseredata e cacciata dal regno consegnato alle ipocrite sorelle. Lear, solo e affaticato dagli anni e dagli oltraggi, troverà ristoro scivolando nella follia.
Gli eventi si intrecciano a quelli del conte di Gloster che predilige il figlio Edgar a danno dell’illegittimo Edmund, il quale tramerà mortalmente contro il padre e il fratello e causerà la morte di Goneril e Regan, delle quali è diventato l’amante.
Padri incapaci di amare incondizionatamente, figli che contendono ai fratelli l’amore paterno. È la dinamica atemporale dell’avventura umana, resa universale da Shakespeare che offre come chiave di volta la follia, vera o apparente.
Nel finale, la consapevolezza degli stolti padri si paleserà in un chiasmo: Lear diventerà lucido accorgendosi di scivolare nella follia, Gloster vedrà chiaro quando resterà cieco: “Di questi tempi i pazzi guidano i ciechi”.
La traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari del testo shakespeariano mantiene l’impianto originario.
Follia e potere sono la chiave registica di Gabriele Lavia. Il Matto, il buffone del re, è la figura centrale che tesse la trama di raccordo, suonando il piano o aggirandosi come unica macchia di colore a righe bianche e rosse (un memorabile Andrea Nicolini) osservando le azioni e commentando gli effetti, ora sostenendo ora dileggiando il re.
Poderoso l’effetto della tempesta, in cui l’immenso telo che avvolge la scena si gonfia e si scuote scosso da potenti ventilatori, svelati nel finale quando il telo scende davanti al vecchio re prostrato sull’agonizzante Cordelia, e sollevandola, incede verso il proscenio cosparso di cadaveri urlando la sua invettiva.
Di singolare e realistica potenza l’accecamento di Gloster, cui vengono strappati gli occhi legato a una sedia capovolta verso il pubblico.
Le luci di Giuseppe Filipponio assumono a tratti angolazioni radenti che producono cromie caravaggesche, creando effetti di particolare tensione, amplificati dalle musiche di Antonio Di Pofi.
Gabriele Lavia giganteggia con forza dirompente, dalla vanitosa regalità alla lucida follia. L’altro cardine dell’impalcatura drammaturgica è il Gloster di Luca Lazzareschi.
La Goneril di Federica Di Martino è scolpita nella roccia, Silvia Siravo nel ruolo della sorella Regan è priva di pietà. La recitazione degli altri interpreti è carica di parossismo fisico e vocale, lacerati dal dolore, dalla follia o dall’empietà: Eleonora Bernazza (Cordelia), Giuseppe Benvegna (Edgar), Ian Gualdani (Edmund), Mauro Mandolini (Kent), Jacopo Venturiero (Scozia), Giovanni Arezzo (Cornovaglia), Beatrice Ceccherini (Oswald), Gianluca Scaccia (Francia e servo), Jacopo Carta (Borgogna e servo), Lorenzo Volpe (servo).
Scrive Lavia nelle note di regia: “Essere o non essere” sono certamente le parole più importanti di tutto il Teatro Occidentale e, come sanno (quasi) tutti, le dice Amleto. Subito dopo “essere o non essere” Amleto dice: “Questa è la domanda”. Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, che ogni uomo lo sappia o no, non fosse altro che porsi questa domanda. Re Lear, invece, “nega” questa domanda e decide per il “Non essere”, non essere più Re. Dare via il proprio “essere” (il proprio regno) è come dare via la propria ombra (come nel famoso romanzo). Nel momento in cui Re Lear non è più Re è solo “Lear”. E che cos’è Lear se non è “più” Re? Non è che un “uomo”. Uno come tanti che non contano nulla. Non è che “nulla”. “Sono io Lear?” si domanderà disperato. Travolto dalla “tempesta” del “non essere” Lear la attraverserà fino alla fine, fino all’ultimo dolore quando l’uomo Lear, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlando, domanderà agli spettatori in platea e nei palchi del Teatro: “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo…”. In questo finale, colpo di genio, Shakespeare-Lear invoca le grida e il pianto di tutti gli spettatori come se fossero il Coro ideale per l’ultima scena del suo capolavoro.
Tania Turnaturi