Quando Riccardo Muti torna a Roma è sempre una festa per il pubblico del Teatro dell’Opera che lo accoglie con gioia e ammirazione: il vero beniamino è lui e anche stavolta non ci sono state eccezioni. In occasione del bicentenario di Giuseppe Verdi (e di Wagner, celebrato a maggio con il Rienzi) dopo l’apertura di stagione con Simon Boccanegra, la scelta cade stavolta su I due Foscari . Muti e Verdi d’altra parte sono e restano un binomio indissolubile anche in quest’opera politica che nel corso degli anni non ha mai acquistato troppa popolarità e non è mai stata troppo amata dal pubblico: basata sul romanticismo in versi di Lord Byron è un’opera che non offre neppure particolari spunti spettacolari. Inoltre è decisamente pessimista dato che alla fine il male trionfa sul bene in un susseguirsi di disgrazie concatenate a cominciare dalla condanna all’esilio per Jacopo Foscari (anche se è innocente) figlio del Doge Francesco Foscari. Neppure suo padre, il Doge, diviso fra l’amore filiale e il dovere, potrà aiutarlo, né tanto meno la consorte Lucrezia Contarini. Jacopo morirà dal dolore dopo aver lasciato per sempre Venezia (nonostante venga beffardamente scagionato), ma il dolore non risparmierà neppure Francesco che, deposto dai Dieci, istigati da Loredano, esalerà l’ultimo respiro. Al di là di qualche riscontrato limite drammaturgico nel libretto, è magnifica la parte musicale con Muti che trasforma (o meglio restituisce a Verdi) non solo il colore più patriottico e trionfale, ma anche un aspetto intimamente tetro e drammatico, efficace nelle tinte fosche e cupe dell’animo, nell’introspezione dolorosa dei personaggi. Cast di gran voci con l’acclamatissimo baritono Luca Salsi (chiamato più volte a ripresa dal pubblico) nel ruolo del Doge Francesco Foscari, il tenore Francesco Meli come Jacopo Foscari nobilmente disperato, la tragicità di Tatiana Serjan come Lucrezia Contarini, il perfido Antonello Ceron (Barbarigo). Ottimo come sempre il coro di Roberto Gabbiani a partire dall’iniziale “giustizia” gridata a metafora della vicenda. E con I due Foscari si ritrovano anche Riccardo Muti e Werner Herzog, visionario regista tedesco cinematografico (mitico il sodalizio con Klaus Kinsky) prestato all’opera dopo le collaborazioni scaligere de La donna del lago di Rossini e il Fidelio di Beethoven. Qui però la regia di Herzog appare molto rigorosa, senza provocazioni (anche per il libretto steso): l’idea per il nuovo allestimento del teatro romano è una messinscena all’insegna del gelo assoluto del potere (e della politica) che travolge gli uomini. La crudeltà degli affari politici poco ha a che fare con l’umanità e i sentimenti, e fra le scene più riuscite della regia c’è proprio quella in cui Herzog mostra la totale indifferenza del popolo veneziano proprio nei confronti della politica quando i veneziani per seguire gli spettacoli del Carnevale con giullari e acrobati in scena, voltano addirittura le spalle alla platea e al dramma politico che si consuma in scena con i due Foscari, Lucrezia e Loredano mostrando il loro disinteresse. L’idea di Herzog viene d’altra parte ben rafforzata dalle belle e gelide scene di Maurizio Balò che ha mantenuto la stessa linea anche nei costumi: le scene si rivelano via via a partire da una sorta di base iniziale cupa e grigia e claustrofobica, dove incombe quasi minaccioso il Leone, simbolo della Laguna, dove si proiettano le ricercate bifore del Palazzo, e che via via si trasforma in Palazzo Ducale, prigione o laguna, ma senza troppi particolari. Il gelo (metaforico e reale) incombe realmente sulla Laguna ghiacciata, nella prigione, nei cumuli di neve che invadono la scena e si ravvede nei costumi eleganti, ma pesanti, con pelliccia (che non broccati e tessuti leggeri), nei mantelli e nei cappelli colorati della folla veneziana in libera uscita. Ultime tre repliche martedì 12, giovedì 14 alle ore 20, sabato 16 marzo alle ore 18.00.