(recita del 18 aprile 2013)
Bellini compose Norma per Giuditta Pasta (Norma), Domenico Donzelli (Pollione) e Giulia Grisi (Adalgisa). Il libretto di Felice Romani deriva da Norma ou l’infanticide di Alexandre Sourmet, basato sul conflitto interiore della sacerdotessa che per amore infrange i suoi voti (vedi Les Martyrs di Chateaubriand e La Vestale di Spontini), incupito dal tema dell’infanticidio (qui non perpetrato) come vendetta per il tradimento amoroso, tratto dalla tragedia greca (vedi Medea di Euripide), sullo sfondo di scene di massa monumentali, con gli antichi riti celtico-barbarici nella sacra foresta druidica. Temi classici visti in chiave romantica con personaggi più umani e un finale incentrato sulla ritrovata responsabilità dell’individuo (Norma si autoaccusa pubblicamente scagionando Adalgisa e affronta il sacrificio supremo sul rogo seguita da Pollione pentito, realizzando così l’eterna unione degli amanti nella morte). La tragedia lirica in due atti debuttò al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1831.
Come nell’edizione originale, l’opera belliniana tra le più difficili e temute, banco di prova per le grandi voci, è andata in scena al Teatro Comunale di Bologna con due soprani e, in omaggio all’anno wagneriano, è stata inserita l’aria per basso scritta da Wagner “Norma il predisse, o druidi“ al posto di “Ah! Del Tebro al giogo indegno” (atto II scena V).
L’evento della serata era proprio il debutto di Mariella Devia nel ruolo impervio di Norma, tramandato alla storia nientemeno che da Maria Callas.
L’eccellente tecnica di canto, l’intelligenza e il rigore stilistico le hanno permesso di usare in modo eccelso le sue qualità vocali al fine di superare egregiamente l’arduo compito, proibitivo per un comune soprano lirico leggero di coloratura, ma non per lei.
Belcantista di rango, formatasi alla scuola di Rossini, la Devia ha sciorinato cromatismi vocali da brivido, audaci salti verso acuti astrali bilanciati da bellissime rapide scale discendenti; fioriture, arpeggi, trilli, gruppetti, acuti, sovracuti zampillavano con estrema naturalezza e fluidità, ma anche i centri e i gravi erano pieni e rotondi, aggiungiamo l’uso magistrale della messa di voce e del canto sul fiato, il cesello dei pianissimo e dei melodiosi e ricamatissimi filati di seta, il suo noto fil di voce udibilissimo, la pulizia assoluta del suono, l’accento perfetto, i suoni scanditi e ben tenuti, la dizione chiara, l’emissione ineccepibile, ed assisteremo ad un’eccellente lezione di canto.
La Devia ha mantenuto una perfezione di canto sorprendente fino all’ultima frase, un coinvolgimento crescente e contagioso e un progressivo potenziamento del mezzo vocale sia in peso che in volume, attuando l’arcaico legame tra canto e parola richiesto da Bellini.Scendendo nel dettaglio Mariella Devia ha cesellato con perfezione di stile la melodia purissima dell’inno alla luna (“Casta diva”) creando una rarefatta atmosfera di grande poesia, è stata straordinaria nella furia (Trema per te, fellon…Oh, di qual sei tu vittima), espressa con voce corposa e suono denso.
Nel confronto con Pollione smascherato (“In mia man alfin tu sei”), col noto accompagnamento a nenia eseguito con eleganza, la veemenza e la possenza di lei si intrecciavano col canto spiegato di lui; nella scena del tribunale il salto ascendente rinforzato e poi discendente della confessione di colpevolezza “son io” è stato semplice per la Devia, che ha espresso con canto purissimo costellato di lamine acute il cocente dolore del tradimento (“Qual cor tradisti”),
Nei magnifici duetti femminili, in cui prevale l’elemento melodico che trasforma in canto puro gli stati d’animo e i sentimenti, la Devia e la Remigio in perfetta sintonia vocale hanno intessuto un’armonia di voci e di colori: la voce della Devia ha una sonorità tridimensionale, è una sfera morbida e levigata cosparsa di melodiosità e vibrante di fuochi d’artificio, la voce della Remigio è una linea sinuosa intrisa di musicalità e dolcezza.
Scenicamente Norma era una giovinetta coi capelli sciolti.
Carmela Remigio nel ruolo di Adalgisa ha esibito voce leggera di bel timbro ed ha cantato benissimo, con facilità d’accesso al registro acuto, abilità a percorrere scale discendenti, buona linea di canto, padronanza d’emissione, ottimi acuti, è stata garbata nel porgere e brava nell’uso del filato e della mezza voce, comunque si è sentito il passaggio dalla naturalezza e pienezza dei suoni centrali alla leggerezza di quelli gravi. Aquiles Machado nel ruolo di Pollione ha cantato con accento appropriato ed ha permeato di sentimento una voce sonora, robusta e di bel colore, ma, usando poco la tecnica del canto in maschera, ha evidenziato una certa difficoltà nel salire verso la tessitura acuta, emettendo suoni tesi e poco fermi.Oroveso, una bella figura giovanile con lunghi capelli biondi, è stato interpretato dal basso Sergey Artamonov con voce lunga, ampia ed estesa ma un po’ trattenuta, voce robusta e possente da rifinire, linea di canto sregolata da rimodellare.
Alena Sautier (Clotilde) ha esibito una buona voce di mezzosoprano, Gianluca Floris (Flavio) è un tenore chiaro, corretto.
La complessa e articolata narrazione della partutura è stata cesellata dal M° Michele Mariotti alla guida dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Nella bellissima ouverture, trascinante nel ritmo e nelle tinte, differenziate dal timbro delle varie sezioni strumentali e dei singoli strumenti, ha tenuto sonorità alte nei tempi concitati e leggeri nelle parti più distese. L’orchestrazione eloquente e ricca di tensione drammatica ha funzionato come sostegno coloristico delle melodie e delle pagine corali, in stretta sintonia con le voci e con le atmosfere. La trama narrativa non presenta fratture tra arie e recitativi e si conclude con una coralità assoluta di grande suggestione. Il tessuto orchestrale è variegato e delicato, quasi un ricamo, sotto il dialogo delle due donne, di cui a volte lascia scoperte le voci, è pervaso di fremiti nella scena del delirio assassino di Norma; nelle pagine di maggior furore l’orchestra tace.
L’energia e la veemenza delle masse, che fanno da contraltare all’ansia romantica dei protagonisti, hanno trovato sfogo nelle sonorità maestose, nella pienezza del suono e nella compattezza delle voci del magnifico e poderoso Coro del Comunale, preparato e diretto da Andrea Faidutti. Bravissima la sezione maschile per il rispetto delle dinamiche vocali, la potenza e l’espansione del suono, l’amalgama sonoro.
L’allestimento in bianco e nero con qualche pennellata di colore era quello col quale Tiezzi debuttò nell’opera lirica al Petruzzelli nel 1991, e anche in questa sede portava la firma del regista Federico Tiezzi, aveva le scene bianche e nere di Pier Paolo Bisleri, i sipari e i fondali dipinti da Mario Schifano, i costumi prevalentemente bianchi (tranne il magnifico abito viola della Devia nel 1° atto) di Giovanna Buzzi, le luci appropriate di Gianni Pollini.
Un allestimento stilizzato e moderno, che non rispetta le tinte e le forme dei luoghi descritti dal libretto. Le atmosfere non vengono definite dagli ambienti: niente clima boschivo sereno, niente orrenda selva, niente arredi, solo alcuni elementi indispensabili e fondali dipinti. Al centro del palcoscenico vuoto una sorta di onnipresente cassapanca marmorea è usata come altare, come letto, come panca, come tavolo di tribunale, la foresta è sintetizzata nello schizzo di un albero che cambia colore, con radici profonde nella terra e un triangolo nella parte superiore; la luna non è quella romantica ma quella astronomica, è un’enorme sfera accidentata che viene sollevata a scomparsa proprio nel momento del canto alla luna. I Druidi indossavano tuniche bianche e corazze di cuoio.
La regia, per lo più statica, ha composto gradevoli quadri d’insieme, suggestive scene di massa e figure di gusto ellenico col supporto ben studiato delle luci. Nella breve pagina corale “Guerra guerra” nella disposizione del coro ho visto un monumento ai caduti.