Veniamo subito alla storia di questa farsa nera, che ruota attorno alla figura di Alberto Saporito, apparecchiatore di feste popolari, attività ereditata dal padre, Don Tommaso Saporito, e adesso in crisi. La “convinzione” che il suo amico Aniello Amitrano, scomparso da diversi giorni, sia stato ucciso, è il motore da cui si snoda tutta la vicenda. Il livido sospetto, appoggiato in un primo momento anche dal fratello spione Carlo, su chi possa aver commesso questo crimine, ricade sui vicini di casa dei Saporito, la famiglia Cimmaruta. L’indubitabile responsabilità di questo omicidio porta Alberto a denunciarli in questura. Verranno di lì a poco arrestati. Ritrovandosi in casa dei Cimmaruta, Alberto si mette a cercare alcuni documenti, che proverebbero senza ombra di dubbio il crimine da loro compiuto. Solo allora, all’improvviso, comincia a rendersi conto di aver solo sognato tutto quanto, comprendendo a poco a poco il guaio in cui si è cacciato. Lo rivela a tutti, ma oramai è troppo tardi. Nessuno gli crede, accorgendosi così di aver innescato o di essere vittima di un meccanismo collettivo di auto-illusione, sospetto e meschinità, fino a un disarmante e immobile silenzio finale, che colma la narrazione, più di qualunque ulteriore parola. Così infine Alberto comprende e in qualche modo fa sua la stranezza di un enigmatico personaggio della vicenda, lo zio Nicola Saporito, centrale proprio per la sua marginalità, la cui tragicomica scelta di essere muto e parlare solamente col suono scoppiettante dei petardi, non è che un richiamo grottesco a quell’incomunicabilità, inevitabile in un mondo reso sordo da sordide pulsioni.
Tutta la trama non è altro che una fine e potente metafora della lacerazione, che coinvolge in primis la coscienza di Alberto Saporito dilagando pian piano fin dentro le menti degli altri personaggi. Questa lacerazione tra sogno e realtà, comunicabilità ed estraniazione dal mondo, riso della commedia e pianto melò, racconto personale e storia, immancabilmente teatro e vita, in cui si ritrovano a vivere i personaggi è, alla fine, la stessa scissione in cui si rispecchiano gli spettatori.
Il morto non c’è mai stato, oppure c’è e si mostra solamente nel sogno, che in simbiosi con il linguaggio teatrale è il solo sguardo capace di registrare il reale, dando con acume un’occhiata al di là delle facili apparenze, sbirciando nelle trame misteriose delle vicende, denudando le illusioni dalle loro maschere, sempre umane, troppo umane.
Solo attraverso questo vivo ritratto corale, sornione, lucido e disincantato che proviene dalla penna di Eduardo De Filippo, magistralmente riportato a nuova vita in questa edizione, lo spettatore riesce così ad avvertire quella disgregazione antropologica e sociale, che è ben rappresentata dalle famiglie Saporito e Cimmaruta, disorientate dal sospetto reciproco sullo sfondo di una società in declino, che sopravvive relegando nel sogno le proprie inconfessabili tensioni; i morti sono più dei vivi, ci ricorda Alberto e si nascondono perfino nei mobili o nelle pieghe dei lenzuoli per togliere il sonno e la pace a chi ancora vive, ignaro di essere circondato da sottili crudeltà, che come il verme sognato da Maria, la cameriera dei Cimmaruta, si insinuano nelle vita quotidiana corrompendola.
Ed è il vuoto di un palcoscenico minimalista, solamente qualche sedia accatastata o un mobile dimesso d’un bianco spettrale, ad amplificare il tremore che pervade la scena e a fare da cassa di risonanza alle risate che scoppiano, ambigue, nel confrontarsi con l’amarezza della propria cattiva coscienza, foriera di menzogne, follie, assurdità d’un vivere comune, dove chiunque è colpevole e innocente al medesimo tempo.
Il morto, allora, cosa può essere se non le macerie di una comunità stremata dagli incubi, nella prigionia di una realtà disgregata. Svegliarsi dal sogno è vedere quindi, non l’assenza del morto, ma quali sembianze abbia, e con sguardo feroce, quasi rassegnato, lasciare che l’unico sfogo a questa consapevolezza, sia l’indignazione, l’ironico sconforto, la rabbia soffocata dal silenzio, che non può non lasciare, infine, ammutoliti sulla scena, a guardarsi l’uno negli occhi smarriti, o ritrovati, dell’altro.
Sono esaustive in questo senso le parole dello stesso regista e protagonista: “Eduardo scrive questa commedia sulle macerie della seconda guerra mondiale, ritraendo con acutezza una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire. E ancora oggi sembra che Alberto Saporito, personaggio-uomo, scenda dal palcoscenico per avvicinarsi allo spettatore dicendogli che la vicenda che si sta narrando lo riguarda, perché siamo tutti vittime, travolte dall’indifferenza, di un altro dopoguerra morale”. (Toni Servillo)
Questa edizione de “Le voci di dentro”, commedia in tre atti di Eduardo De Filippo composta nel 1948 e inserita dall’autore nella raccolta “Cantata dei giorni dispari”, è curata nella regia dal sapiente ed ispirato talento di Toni Servillo, che presta, inoltre, la sua estrosa e dirompente teatralità di attore per arricchire il personaggio principale di Alberto Saporito, e riportare sulla scena in un atto unico, assieme ad un cast vitale quanto poliedrico, tutta la perenne attualità e la sardonica leggerezza della commedia di Eduardo. Al suo fianco, per la prima volta in teatro, il fratello Peppe Servillo, voce degli Avion Travel, ad impersonare con bravura e arguta comicità, Carlo Saporito, il fratello del protagonista, aspetto non casuale, che ricalca l’intreccio tra realtà e finzione che fonda il nucleo stesso dell’opera.
Tutti gli attori meritano un plauso per la loro interpretazione, versatilità e presenza scenica: Betti Pedrazzi, Chiara Baffi, Marcello Romolo, Gigio Morra, Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonello Cossia, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Mariangela Robustelli, Francesco Paglino.