Fano Teatro della Fortuna
Una produzione del Teatro Eliseo in collaborazione con Fuxia contesti d’immagine
con Leo Gullotta ed Eugenio Franceschini
e le video apparizioni di Paola Gassman, Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano
regia Fabio Grossi
video Luca Scarzella
musiche Germano Mazzocchetti
disegno luci Umile Vainieri
risoluzione scenica Luca Filaci
disegno audio Franco Patimo
assistente regista Mimmo Verdesca
Parola e azione tra il reale e il virtuale
Prima del silenzio è un’opera teatrale scritta nel 1979 da Giuseppe Patroni Griffi per Romolo Valli, che la interpretò egregiamente e morì dopo la recita per incidente stradale.
Il protagonista è un anziano poeta chiuso nel suo mondo coi ricordi del passato che spesso assumono i connotati dell’incubo, l’unico rapporto con la realtà è l’amicizia di un ragazzo che vive a casa sua.
La differenza generazionale è spesso motivo di scontro: la parola contro l’azione, il vagheggiare “pallido e assorto” contro la vivacità e l’immediatezza dell’agire, la sensibilità e le insicurezze contro il cinismo e la spregiudicatezza, e viceversa, tuttavia i due, forse legati da un sentimento che va oltre l’amicizia, riescono a stemperare proprio nello scontro, che è poi un confronto, le loro morbosità. Ma più il poeta che il ragazzo, perché, mentre per il poeta il ragazzo è, come ultima fase della vita, un’ancora cui aggrapparsi per dare una forma di concretezza alla sua esistenza stretta dentro una torre d’avorio, per il ragazzo il poeta è una fase iniziale della vita e quindi trampolino di lancio verso il mondo che sta fuori della torre e che l’aspetta con tutti i suoi rischi e le sue malie. È evidente che il rapporto non dura e chi ne esce con le penne strappate è ovviamente l’anziano poeta, non tanto per la fine di un’amicizia, quanto per quella porta sbattuta sulle sue illusioni. E qui sta l’attualità e l’immortalità del testo. Ogni persona nasce e muore sola, ma vive anche sola pur a fianco di altri; l’amore, l’amicizia, i rapporti interpersonali sono parentesi, sono attimi che arricchiscono e aiutano, ma ai quali non ci si può aggrappare, perché nessuno può contare su qualcuno in modo esclusivo e duraturo e, in fondo, non ne ha neanche il diritto. Quindi delusioni, pretese, gelosie, senso del possesso sono solo sintomi d’insicurezza. Nulla è per sempre, perciò godiamoci le nostre parentesi. Non è pessimismo, è concretezza.
Tutto questo ci ha trasmesso l’interpretazione magistrale di due bravissimi attori sul palcoscenico del Teatro della Fortuna di Fano: Leo Gullotta ed Eugenio Franceschini.
Leo Gullotta, che nel corso della sua lunga ed onorata carriera è passato dal cabaret ad un repertorio impegnato con risultati eccellenti, ripropone questa non facile pièce, dove la parola ha un valore shakespeariano e il fraseggio ridondante è quello della poesia (più barocca che contemporanea); la sua recitazione intensa, sostenuta dal vigore dell’accento, dal magnetismo dello sguardo e da una grandiosa tenuta scenica, ne fa un vero capolavoro. Personaggio un po’ bohémien nei sogni e nell’aspetto, coi capelli lunghi bianchi che s’inargentano o s’imbiondiscono al cambio delle luci, in tenuta da casa casual (sembra un pigiama) o con orpelli luccicanti nelle mascherate improvvisate, non ha del bohémien le speranze e lo slancio verso un futuro per lui già passato.
Nel lungo travagliato dialogo, che diventa quasi un cervellotico monologo perché il ragazzo risponde a tratti, riaffiora tutto il suo vissuto (che compare in proiezioni), una sorta di rilettura senza possibilità di correzioni. Bravissimo Leo!
Gli sta a fianco il giovane Eugenio Franceschini, che a soli 22 anni ha una padronanza scenica, una scioltezza del gesto e una fluidità di recitazione da grande attore. E poi è bellissimo: un viso pulito e maschio su un fisico scolpito mozzafiato e ben dotato, che non ci è dispiaciuto vedere <nature> sotto la doccia proiettata sul velatino. A lui sono toccate le scene più osées, come quella dell’autoerotismo, a dire il vero un po’ troppo lunga fino ad essere per noi imbarazzante, praticato, per finta naturalmente, sul divano girato all’indietro con un’arte attoriale superba sì da farlo sembrare vero. L’attore ha voce decisa e di bel timbro e ben ci sta nel ruolo di un giovane cinico, sfrontato, egocentrico, sicuro di sé, ma soprattutto libero.
La scena è un cubo vuoto con pareti delimitate da tubi al neon che cambiano colore, al centro in alto il titolo al neon, un velatino ogni tanto scende per rendere ancor più impenetrabile l’ambiente e permettere doppie proiezioni, l’unico arredo è un divano rosso vintage, dove i due si siedono, si sdraiano, da soli o insieme, mimano l’azione dei rematori come se quello fosse una barca e si sente il fruscio del mare che compare sul fondale con riflessi argentei e si polverizza sul velatino, viene poi aggiunto un tavolo con libri, culla della parola, perché “la vita è parola”, ma, se la parola non è capita, naufraga, si disintegra e una pioggia di lettere dell’alfabeto, senza senso perché isolate, invade il palcoscenico. Bellissima scena.
Certo le trovate registiche di Fabio Grossi sono intelligenti e spettacolari, ma la più sorprendente è la scelta di far interloquire i presenti con gli assenti che sono visivamente ma non concretamente presenti e parlano, si muovono e rispondono al poeta, dando vita ad un dialogo dell’assurdo che vive solo nella mente disturbata del poeta. Sono le persone del passato che riaffiorano e incombono come fantasmi, la moglie, il figlio, il cameriere, e si moltiplicano, s’ingigantiscono, si uniscono, assumono forme distorte, fino a soffocarlo, persone dalle quali il poeta si difende dicendo “Non so chi siete, non vi conosco”.
Nelle vesti dell’altera e distaccata moglie compare in immagini in 3D una straordinaria Paola Gassman, nel ruolo del figlio piccolo borghese c’è Andrea Giuliano e in quello del venale cameriere Sergio Mascherpa. Una trovata veramente geniale. Il tutto supportato dal suggestivo disegno luci di Umile Vainieri e da musiche appropriate scelte da Germano Mazzocchetti (gli altoparlanti erano posizionate lungo il boccascena).