A Isla Negra, Pablo Neruda ha l’onore di incontrare uno di quegli ultimi che amò descrivere nelle sue poesie: un postino analfabeta, ex pescatore, che ha il compito di portare la posta all’unico uomo che ne riceve, il poeta Pablo Neruda. Tra i due uomini, così diversi per estrazione sociale e caratura culturale, nasce un’amicizia sincera e spontanea, che porterà il giovane postino a prendere consapevolezza dei propri sentimenti e, dunque, della propria vita. Ispirato dall’incontro con il poeta, Mario Jimenez avvicina la bellissima locandiera, prendendo a sussurrarle parole che sono già in odore di poesia. Pablo Neruda fa da Figaro, non si scompone di fronte ai sussulti indignati di Dona Rosa vedova Gonzales, ma per mezzo della poesia insegna l’arte della passione al giovane postino, umile e dimesso nei suoi panni laceri e sporchi. Sullo sfondo, la Storia si agita come una serpe: il Cile cade sotto i colpi della dittatura di Pinochet, e a poco sembra servire la poesia, se non addirittura a niente. Eppure, laddove c’è una serpe, ci deve pur essere un Paradiso, ancorché la bestia sia lontano dal tentare il povero postino e la sua bella Beatrice Gonzales. Così, la poesia non è soltanto una forza dirompente, ma il nuovo profilo della Storia, una difesa contro una cattiva modernità che, impavida, affonda i suoi tentacoli tra la carne della gente più umile. La resa scenica, tuttavia, contrasta con la nobiltà dei temi: se già la scenografia accusa qualche debolezza, con altrettanti dubbi si può considerare l’impianto recitativo: gli attori più giovani, infatti, hanno mostrato un talento ancora fortemente acerbo. Le musiche stesse, poi, sono risultate sgraziate e mal dosate. La realtà è che la resa cinematografica de Il postino è ancora troppo presente negli occhi di chi, ieri sera, ha assistito allo spettacolo: il confronto è risultato, così, impietoso. Morto un Troisi, non se ne fa un altro.