In un Teatro Manzoni gremito, Pistoia accoglie i fratelli Toni e Peppe Servillo che portano in scena “Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo. Questa commedia del 1948 è una delle più famose tra quelle scritte dal drammaturgo napoletano e non lo è a caso, dato che essa rappresenta una summa delle più significative tematiche del teatro eduardiano.
La storia prende inizio da un’accusa. Quella mossa da Alberto Saporito e suo fratello Carlo nei confronti dei Cimmaruta. Una famiglia rispettabile, i cui membri vengono però accusati di aver assassinato Aniello Amitrano. Tale accusa si basa esclusivamente sul racconto di Alberto, la cui ricchezza di dettagli convince le forze dell’ordine a prelevare i Cimmaruta per condurli in prigione ed avviare un’indagine.
La lucidità con cui Alberto descrive il delitto manca, tuttavia, di una corrispondenza nella realtà. Ed è proprio questo a condurlo verso una sconvolgente presa di coscienza. “M’ l’agg sunnàt”, confessa. Ma ormai è troppo tardi. Il meccanismo è stato innescato e tornare indietro è impossibile.
Dopo l’accusa, che come una scintilla ha dato il via alla storia, ecco dunque l’ammissione, reale punto focale della commedia. Il sottile confine che divide sogno e realtà è un tema caro ad Eduardo. Non solo esso lo inserisce nella commedia, ma lo utilizza per trattare un tema altrettanto interessante, quello della famiglia. Nell’Italia del secondo dopoguerra, dominata da ansia, preoccupazioni e fame, si assiste inermi ad una drammatica perdita di valori, che non dà scampo neppure all’istituto familiare. Eduardo lo sa bene ed è per questo che nelle sue commedie, pur conservando una presunta rispettabilità, la famiglia si rivela un luogo che genera e alimenta invidie, cattiverie e rivalità. I Cimmaruta sono l’esempio di tutto ciò. Di fronte all’accusa infamante, infatti, non si ribellano e non si difendono, neppure quando Alberto ammette di aver sognato tutto. Essi non negano l’assassinio, ma al contrario si convincono che sia avvenuto realmente ed innescano una serie di accuse reciproche.
Anche Alberto, in questo difficile momento, deve fare i conti con l’opportunismo del fratello Carlo, intenzionato a trarre un vantaggio economico dalla situazione. Si direbbe solo Alberto, ma in realtà la sua esistenza è accompagnata da un personaggio defilato e al contempo profondamente significativo. Si introduce qui la figura di zi’ Nicola, un vecchio zio che, rassegnato alla sordità degli uomini, ha deciso di chiudersi in un mutismo che viene rotto solo da fuochi d’artificio. “Se il mondo può essere sordo, perché io non posso essere muto?”. È questa figura, relegata in un angolo ma pur sempre in una posizione di dominio sulla scena, ad incarnare il tema centrale della commedia: l’incomunicabilità. Già, perché è questo a cui mira Eduardo. Mostrare a ciascuno quanto sia sorda l’umanità. Tanto sorda da portare un uomo a rinunciare per sempre all’uso della parola. Disillusione, amarezza, smarrimento, sono questi i temi che emergono e attraverso i quali si vogliono scuotere le coscienze.
Se i meriti del testo sono innegabili, c’è da sottolineare che l’interpretazione di Toni Servillo nei panni di Alberto e di Peppe in quelli di Carlo, omaggia in modo impeccabile Eduardo e la sua sensibilità verso le innumerevoli declinazioni della natura umana. Forti probabilmente della fratellanza che li lega nella vita reale, oltre che sulla scena, i due regalano attimi di leggerezza e comicità, riuscendo al contempo a far commuovere e riflettere. Affiatati e complici, traducono alla perfezione un testo che sembra appartenergli. Gli altri interpreti non sono da meno, e grazie alla loro abilità nel caratterizzare i personaggi, la storia si arricchisce di vivacità.
Una menzione particolare la merita il linguaggio. Grazie ad un’accurata commistione tra dialetto napoletano e lingua italiana, infatti, Eduardo ha dato vita ad un linguaggio teatrale nuovo. Autentico ed espressivo, esso permette di vivere la situazione non solo grazie al significato della parola, ma anche attraverso il suono prodotto al momento in cui viene pronunciata. Il teatro, tuttavia, non è solo parole ma anche immagini. Ecco dunque che la scenografia, curata nei dettagli, si rivela un elemento di pregio. Diversa in ogni atto, essa alterna luci ed oscurità. Conserva comunque uno stile sobrio e mai invadente, catalizzando l’attenzione degli spettatori sugli interpreti in scena.
Il saluto che il pubblico di Pistoia riserva agli attori è caloroso. Tutti in piedi ad applaudire, con la compagnia che più volte torna sul palco a godere i frutti di un’interpretazione eccelsa. Ma l’entusiasmo degli spettatori, e i ripetuti applausi, vogliono anche essere un omaggio ad un testo di straordinaria ricchezza. Al genio di Eduardo De Filippo che, nel suo insaziabile desiderio di mettere in scena l’uomo e l’umanità, riesce ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, a far emozionare, sorridere e riflettere.