Aldo Morto
tragedia
drammaturgia, regia, interpretazione Daniele Timpano
collaborazione artistica Elvira Frosini
aiuto regia Alessandra Di Lernia, oggetti di scena Francesco Givone
disegno luci Dario Aggioli
registrazioni audio Marco Fumarola, editing audio Marzio Venuti Mazzi
elaborazioni fotografiche Stefano Cenci
produzione amnesiA vivacE con il sostegno di Area06
in collaborazione con Cité Internationale des Arts, Comune di Parigi, si ringrazia Cantinelle Festival di Biella
Spettacolo vincitore Premio Rete Critica 2012, segnalazione speciale Premio IN – BOX 2012, finalista Premio Ubu 2012 come “migliore novità italiana”
Un attore nato negli anni ’70, che di quegli anni non ha alcun ricordo o memoria personale, partendo dalla vicenda del tragico sequestro di Aldo Moro, trauma epocale che ha segnato la storia della Repubblica italiana, si confronta con l’impatto che questo evento ha avuto nell’immaginario collettivo. In scena, assieme al suo corpo e a pochi oggetti, solo la volontà di affondare fino al collo in una materia spinosa e delicata senza alcuna retorica o pietismo.
«Desolato, io non c’ero quando è morto Moro» precisa Daniele Timpano. «Aldo è morto senza il mio conforto. Era il 9 maggio 1978. Non avevo ancora quattro anni. Quando Moro è morto, non me ne sono accorto. Ma dov’ero io quel 9 maggio? E cosa facevo? A che pensavo? E soprattutto a voi che ve ne importa? È una cosa importante cosa facevo e che pensavo io a tre anni e mezzo? Aldo è morto, poveraccio. Aldo Moro, lo statista. Che un certo Moro fosse morto l’ho scoperto alla televisione una decina di anni dopo, grazie a un film con Volontè. Un film con Aldo morto. Ci ho messo un po’ a capire fosse tratto da una storia vera. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro? E quando? Perché? E come? Lo hanno trovato nel bagagliaio di Renault 4 rossa, undici colpi sparati a bruciapelo addosso. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro! Brutti bastardi. E vabbè, pazienza. Niente di importante. Cose che capitavano negli anni ’70. Bisognava fare la rivoluzione. Chi? Brigate rosse. Era il 9 maggio del 1978. Non avevo ancora quattro anni. Brigate rosse, sì. Ma rosse in che senso?».
E così con Aldo Morto ci consegna la pièce più coraggiosa e sensazionale, ma anche più irritante, che la scena teatrale italiana ci abbia regalato negli ultimi anni. Cominciamo dal fatto teatrale. Timpano ha affinato la propria arte performativa dentro una partitura così metamorfica e rigorosa da fare ormai scuola a sé. I momenti di spettacolarizzazione pura sono di fascino indubitabile: per fantasia, ribaltamento di registri, nettezza della macchina oggettuale. Grandissimo attore al servizio di se stesso regista. Poi c’è il drammaturgo. Uno scrittore che non gioca al ribasso, ma chiede a se stesso lo sconfinamento. Infine, c’è la storia italiana. Che fa Timpano? Come un motorino impazzito, scuce e ricuce fonti diverse sul Caso Moro, offrendole in pasto allo spettatore come carne senza organi, materiale trasparente di un varietà di avanspettacolo colto. Tutto il contrario del “narratore civile” che rassicura indignandosi. Con Timpano, ce n’è per tutti: per i brigatisti, i giornalisti, gli storici, i cineasti, e persino per se stesso, “sciacallo di un artista”.
Katia Ippaso, Altri. La sinistra Quotidiana
Continua con Aldo morto la splendida galleria di cadaveri eccellenti della storia italiana a cura di Daniele Timpano, un attore-scrittore romano dalla presenza dinoccolata, apparentemente ingenua, capace di affondi acuti nelle rimozioni e infamie nazionali con spettacoli che mettono in moto passioni e idee. (…) La Storia diventa una trama non ricomposta di verità contraddittorie quanto i punti di vista, con una tendenza tutta italiana a volgere ogni cosa in spettacolo. Scorrono giornalisti che lucrano sul sangue, quadri familiari, slogan truculenti del Movimento di quei tempi, film e filmacci, libri di successo dei brigatisti, in un lavoro di sottile indignazione e molteplicità di umori che si accende nell’orrore davanti alla morte, nella pietas, nel senso di impotenza generazionale.
Massimo Marino, Corriere di Bologna
Sala Shakespeare | 25 febbraio – 2 marzo
Educazione siberiana
di Nicolai Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo
regia Giuseppe Miale di Mauro
con Luigi Diberti
e con Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti
scene Carmine Guarino
luci Luigi Biondi
musiche Francesco Forni
costumi Giovanna Napolitano
cura del movimento Roberto Aldorasi
aiuto regia Andrea Vellotti
produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino/Teatro Metastasio Stabile della Toscana
Emilia Romagna Teatro Fondazione / in collaborazione con NestT (Napoli est Teatro)
Lo spettacolo è tratto da Educazione siberiana di Nicolai Lilin, Giulio Einaudi Editore, prima edizione Supercoralli 2009
L’esordio letterario di Nicolai Lilin, Educazione siberiana (edito da Einaudi), è stato travolgente: venduto in 24 paesi stranieri e tradotto in 19 lingue, è diventato un film diretto da Gabriele Salvatores e interpretato da John Malkovich. Primo di una trilogia, il libro è il crudo resoconto di ciò che significa per l’autore far parte degli Urka siberiani, ultimi discendenti di una stirpe guerriera: uomini che si definiscono “criminali onesti”, gente animata da un’etica forte e antica, capace di brutalità ma anche di esprimere un codice etico che paradossalmente si dichiara incorrotto, nonostante sia l’espressione di una comunità criminale.
Quando Lilin nasce in Transnistria, regione dell’ex Unione Sovietica oggi Moldova, la criminalità dilagante è l’unica certezza per un bambino come lui, cresciuto nel culto delle armi, che vengono esposte in ogni casa ai piedi delle icone religiose, come fossero anch’esse ammantate di sacralità. Nel suo quartiere, Fiume Basso, si concentrano i criminali espulsi dalla Siberia e la scuola della strada è l’unica che vale per Nicolai, un’educazione che passa attraverso i “vecchi”, i criminali anziani ai quali la comunità riconosce lo specialissimo ruolo di «nonni» adottivi. Sono loro, giorno dopo giorno, a trasmettere valori che paiono in conflitto con quelli criminali: l’amicizia, la lealtà, la condivisione dei beni. Ma anche la cultura dei tatuaggi che dicono il destino di ognuno, e che ricoprono la pelle di Nicolai adulto. E quando la cultura dei nuovi delinquenti, giostrata dalle autorità russe, fa breccia a Fiume Basso, nulla sarà più come prima.
In uno stile spiazzante, con una dimensione etica tangibile ma incredibilmente distorta, Educazione siberiana è un moderno romanzo di formazione.
L’adattamento teatrale di Educazione siberiana si muove intorno alla storia di due fratelli molto diversi tra loro: il primo è Boris, il giusto. Legato agli insegnamenti della tradizione siberiana, rispetta gli anziani e cerca di somigliare in tutto a loro. Il secondo è Yuri, il ribelle. Ha lo sguardo proiettato nel futuro, pronto ad infrangere ogni regola e a tradire la sua stessa famiglia per amore del Dio denaro, così rapito nel suo sogno americano. In mezzo il vecchio Nonno Kuzja, che cerca di far resistere la tradizione dei criminali onesti, nonostante il devastante impatto della società con il moderno delirio del consumismo occidentale. La storia di Boris e Yuri rappresenta metaforicamente il modello del tipico conflitto che si sviluppa nel periodo post sovietico sia dentro una singola persona che nella società intera. All’epoca della fine dell’URSS gli effetti collaterali di quell’evento, i fattori politico-sociali, hanno generato il caos nel popolo stremato dalla dittatura e affamato di libertà. Ed è proprio la percezione distorta della libertà che ha spinto le persone verso atti estremi, fino ad arrivare al drammatico degrado delle anime.
Nicolai Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
Elfo Puccini, corso Buenos Aires 33 – Martedì /sabato ore 20.30, domenica ore 16.00 – Prezzi: intero € 30.50 – ridotti € 27 e € 16 Martedì € 20 – Info e prenotazioni: 02/0066.06.06 – www.elfo.org