prefazione di Franco Cordelli
casa editrice Titivillus
collana Altre visioni
Trent’anni di un uomo bastano a emanciparlo dall’ingenuità dell’infanzia. Non accada mai, per un artista di teatro. Questo libro ha un’occasione, i trent’anni della Compagnia Krypton che con il suo regista Giancarlo Cauteruccio dal 1983 anima il dibattito teatrale e ne costituisce un importante tassello storico. Ma l’occasione è celebrativa è il teatro non lo è. Non nasce un libro sulla storia di Krypton, dunque, ma un viaggio nell’opera recente a svelare una riflessione sulla società attuale, tenendovi sempre come filtro un’idea forte di arte scenica. Dopo la prefazione di Franco Cordelli, critico del «Corriere della Sera», una conversazione “politica” con il regista rivela il percorso che dall’avanguardia tecnologica ha trovato un luogo, il Teatro Studio di Scandicci, dove mescolare arte e formazione. La parte centrale ospita tre variazioni a tema in presa diretta su Le Troiane di Euripide (in scena con il nome di Crash Trōades) in tre diversi luoghi “abitati” dall’opera euripidea; un corpo saggistico caratterizzato da un doppio legame fra la discendenza dell’amato Beckett e la propria scrittura drammaturgica invece di provenienza istintiva, atavica, tenute insieme dal concetto di prigionia e di solitudine dell’artista; infine un nucleo di riflessioni a proposito degli interventi sui monumenti della città di Firenze, animazioni ri-costruttive della loro origine, con l’uso di un comparto tecnologico di luci e sonorità. Un’altra conversazione con il regista, questa volta in chiave “poetica”, chiude rintracciando la linea evolutiva del suo teatro per sue stesse parole. Ma un libro che chiude è ancora un’opportunità d’apertura: attraverso un’appendice composta da molti contributi di osservatori si è cercato di rispondere a una domanda utile per inquadrare il lavoro di Krypton nel panorama teatrale lungo un trentennio, quell’anomalia di presenza e contenuti in grado di sostenere l’arco di una lunga parabola mai conclusa.
PREFAZIONE di Franco Cordelli
Krypton di Giancarlo Cauteruccio è un gruppo importante che ho seguito nel corso del tempo, a cui riconosco un valore lungo questo trentennio. Più che un commento posso cercare di individuare le linee di evoluzione che mi sembrano significative, peraltro ben note, perché il commento potrebbe implicare analisi critica e giudizio estetico: l’analisi critica di fronte a una testualità così ampia e diffusa non la posso fare, il giudizio estetico lo do per implicito proprio in virtù di questa mia lunga frequentazione. La traccia evolutiva potrebbe comporsi allora di tre punti fondamentali: il primo è forse più oggettivo, anche se nel caso di Cauteruccio la migliore oggettività nasce sempre da un dato personale, il secondo e il terzo li direi più precisamente soggettivi.
Il primo nucleo nasce dalla comparsa di Krypton nella scena allora contemporanea in cui ha proprio fatto irruzione unendo il classico (famoso il caso dell’Eneide virgiliana) con il laser, ossia uno strumento tecnologico che non si era mai usato teatralmente e che ha aperto una grande strada su cui il teatro molto ha lavorato soprattutto negli ultimi dieci anni, utilizzando materiali non solo visivi ma in tutto derivati dall’elettronica.
La cosa che colpì fu l’unione dell’antico con il futuro, che non era soltanto il contemporaneo ma una proiezione di possibilità: il laser esisteva anche prima, ma il loro utilizzo divenne determinante e lo spostò in teatro dove era un’assoluta novità, o comunque non era mai stato impiegato con tanta perizia tecnica che diventava illuminazione estetica, attraverso cui l’antico, il trapassato, il dimenticato si misurava con l’ancora non immaginato, l’inesistente. Questo ebbe per me una forza dirompente, da un punto di vista estetico e da un punto di vista dell’avanguardia, ovvero dell’invenzione di un linguaggio.
Un secondo blocco si articola intorno alla fisicità dello stesso Cauteruccio, alla messa in gioco del suo corpo che è una presa d’atto di quella propria fisicità molto particolare, unita alla volontà di non subirla: consapevole dell’impotenza del suo corpo, di quella connotazione con cui ha di certo dovuto fare i conti, lui l’ha messo teatralmente in campo trasformando il disagio in una formula linguistica, mettendo in rapporto due elementi distantissimi tra loro, la scrittura di Beckett ovvero la voce di un autore tra i più spirituali, astratti del XX secolo e questa estraneità verso se stesso che lui ha reso plastica, ce l’ha fatta vedere.
Il terzo sorprendente punto risale all’entrata in scena del fratello di Giancarlo, Fulvio Cauteruccio, quando cioè possiamo dire egli è diventato grande. Questi due fratelli insieme, scoprendo la fratellanza hanno scoperto la propria comune etnia, una forte radice che è regionale, più precisamente calabrese. Si sono ritrovati sul palcoscenico e questo sentimento del palcoscenico è stato uno dei più sconvolgenti innesti del dialetto sulla lingua, fenomeno degli anni Novanta molto importante anche in chiave letteraria ma anche per loro ancora una volta è fenomeno nato da un contrasto, da un’origine teatrale che da un punto di vista familiare non è italiana, è dialettale. L’unione di queste due cose, infondo per provenienza così lontane tra loro come la lingua codificata e il dialetto, si è sublimata in lui in forma del tutto esistenziale, l’uso che ne fa non è per parlare di una situazione sociale derelitta, come per lo più accade, ma per esprimere una condizione peculiare, quella di un calabrese condotto a Firenze, una città tra le più aliene dove non credo si sia trovato a contatto con una comunità in cui riconoscersi: la sua è allora solitudine nella solitudine, che però non diventa mai un pianto, un lamento, ma nella sua opera c’è in genere una qualità personalissima nel porgere oggettivamente un’esperienza intima, o nella loro particolare combinazione di una famiglia. Questo, nel panorama teatrale degli ultimi trent’anni, è un caso unico.