da Carlo Goldoni drammaturgia di Ken Ponzio
E’ uno spettacolo spiazzante che deve la sua specificità e stralunata fascinazione (e al tempo stesso la sua limitazione), all’opera di destrutturazione del testo goldoniano operata da Ken Ponzio e Antonio Latella da cui è scaturita una sorta di ircocervo. Una prima parte bella elegante pulita, una seconda provvista di segni troppo difficili da interpretare, un caleidoscopio dove le visoni, apparentemente eterogenee, si contrappongono e sovrappongono mettendo in crisi la visione d’insieme e mettendo a dura prova la comprensione dello spettatore. Antonio Latella (con la complicità di Ken Ponzio con il quale ha riscritto l’opera di Goldoni) lo sappiamo, è un provocatore, ama spiazzare, stupire, si crede un genio e forse lo è. In realtà la pièce è composta da un atto unico, ma la disomogenea impostazione della seconda metà la fa apparire appunto un ircocervo. Mentre la prima è comprensibilissima e aderente al testo la seconda è strabordante, anticonvenzionale. ipertrofica nel male e nel bene. La trama riproposta in modo iconoclasta ogni tanto si perde e poi, come un fiume carsico, riaffiora anche dopo la destrutturazione (credevamo finale) dell’allestimento scenografico. Con le sue invenzioni Latella ha spiazzato lo spettatore che, tenuto sulla corda e pur pieno di dubbi (forse proprio per questo) non ha ceduto alla distrazione o alla stanchezza. La vicenda si svolge nel piano di un hotel dove si affacciano le porte di quattro stanze, un televisore acceso sintonizzato su la CNN, una cameriera che pulisce la moquette col battitappeto. In questa hall tutti personaggi vivranno la loro effimera vita. Pantalone che vuol dar marito alla figlia Clarice, l’innamorato Silvio vestito in abito settecentesco (rappresenta il passato), Arlecchino (Truffaldino) in un non convenzionale abito bianco e una maschera ridotta ad un fazzoletto bianco, che non si comporta come l’antesignano: è un furbo truffatore fratello di Beatrice (travestita da uomo) con la quale intrattiene un rapporto incestuoso. Per non farci mancare niente, Beatrice e Clarinda si esibiscono in un fuggevole abbraccio saffico. Smeraldina è la servetta che ad un certo punto si produce (con ammirevole intensità) in un lungo monologo evanescente e fuori contesto, Florindo fa il suo esordio in gonnella accompagnato da una musica assordante, rimane Brighella in perfetto smoking (il personaggio più indovinato grazie anche alla bravura dell’attore) è il gestore dell’albergo che ha il compito di fare anche il narratore, l’imbonitore, il suggeritore, il regista, il telecronista. Si può concludere che “Il servitore di due padroni” è uno spettacolo mediamente divertente, comico quanto basta, allegorico, eccessivo, eclettico (danza, canzoni e pantomima) e recitato da un cast di attori molto bravi. Massimiliano Speziani (Brighella) ha espresso doti comiche, mimiche e interpretative eccezionali, Roberto Latini è un Arlecchino di cui si ammirano le eleganti capacità acrobatiche e le notevoli modulazioni vocali, Federica Fracassi interpreta alla perfezione una Beatrice determinata nell’inganno, fredda, energica, mascolina, Elisabetta Valgoi è una sensibile, stordita Clarice, Lucia Peraza Rjos interpreta bene il ruolo della serva padrona, Rosario Tedesco nella breve parte di Silvio dimostra doti attorali notevoli, bravi anche Giovanni Franzoni (Pantalone), Marco Cacciola (Florindo) e Annibale Pavone (il padre di Silvio). Le scene e i costumi sono di Annelisa Zaccheria. E’ determinante l’apporto delle luci di Robert John Resteghini e del suono curato da Franco Visioli.