E’ difficile raccontare una storia che non c’è, di una trama fatta di lacerti di vita e di morte che si confondono e si sovrappongono, di luci e di ombre, di polifonia dialettale inaccessibile che all’inizio spiazza. Ma la parola risulta ancillare al linguaggio del corpo, al suono e ai toni della voce, ai gesti simbolici degli attori.
“Le sorelle Macaluso” è un’opera singolare che attraverso una serie di rivelazioni fornisce allo spettatore struggenti suggestioni. Non è facile riassumere la trama, poiché il racconto va ben oltre la forza del messaggio di Emma che sembra più criptico di quello che non è: E’ il gioco della vita con i morti che non vogliono uscire dalla memoria dei vivi.
Nei suoi spettacoli la famiglia è un topos che, rispetto ad altre sue opere è qui raffigurato come un apparato che produce contrapposizioni non violente e la religiosità è appena evocata da un crocifisso che sbuca dalle mani di una delle sorelle nel momento in cui il loro camminare ritmato rallenta e si stempera in una lenta processione.
Le sorelle Macaluso sono sette, sette come vuole la simbologia esoterica, i sette giorni della creazione, quelli della settimana, il ciclo lunare, i sette peccati capitali, o i sette samurai.. In una dimensione senza tempo sette figure femminili, come ombre, avanzano con luci taglienti dal fondo della scena vuota come pupi siciliani e combattono l’una contro l’altra con scudi e spade secondo la volontà del puparo che muove i fili della vita e della morte. Sono vestite di nero perché si ritrovano nell’occasione (così si legge) del funerale di una di loro che continua a partecipare agli accadimenti scenici rendendo arduo per lo spettatore distinguere i vivi dai morti. Ma, come dicevamo, è ininfluente nella gestione del racconto. Le sorelle (tutte sette perché il gruppo non accetta di staccarsi dalle persone care) vestono ora abiti sgargianti e ricordano i giorni felici. E’ uno spaccato di ricordi con un contrappunto di battute, fischi, risate che poi scivolano in contrapposizioni e reciproche accuse. L’accusa di una sorella verso il padre che l’ha messa bambina in orfanatrofio (dove là poteva almeno mangiare) accusa che le si ritorce contro al ricordo di un giorno al mare quando lei stessa, a causa di una prolungata apnea, causò la morte di una sorella (che sulla scena è presente e mima l’accaduto). E ancora la morte di un figlio giovane calciatore che vive nel mito di Maradona stroncato dalla tensione e dallo sforzo cui la madre psicologicamente lo sottopone. In controluce escono dal buio anche il padre e la madre che perpetuano un amoroso amplesso. La memoria e l’amore si impongono alla realtà, la vita non si ferma e va avanti nonostante la morte e i morti (la sorella, il ragazzo e i genitori) rimangono in scena replicando in modo ossessivo l’attimo che precede la fine.
La pièce si sviluppa come un balletto moderno di cui non capisci o puoi soli “sentire” quel che in scena si rappresenta, ma ti cattura e ti rende vittima di una dolcissima, struggente intensità emotiva ricca di pathos.
Dell’artista Emma Dante autrice e regista abbiamo già detto tutto il bene che il nostro lessico ci consente. Bravissimi gli interpreti: Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier. Funzionali le musiche e il servizio luci di Cristian Zucaro.
Produzione Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National – Bruxelles, Festival d’Avignon, Folkteatern – Göteborg
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale