Una piccola tragedia dai toni confidenziali che spinge la riflessione su meccanismi psicologici portati all’estremo, i quali spesso allontanano dalla realtà fattuale chi ne è schiavo senza rendersene conto. La tacita guerra della mancanza di comunicazione crea in ogni personaggio la necessità di assumere una maschera con specifici tratti peculiari, per potersi difendere dagli eventi di una vita che non lo soddisfa, per poi scoprire che è da se stessi, dalla propria mente, dalle proprie paure e dai propri paradigmi che bisogna difendersi. E qui rientra in gioco l’importanza della comunicazione, del confronto con la visione dell’altro, per poter riscoprire i propri bisogni con attinenza alla realtà.
Un lavoro di critica all’impianto del mondo della psicologia, che tristemente spesso opera soltanto secondo i criteri del guadagno monetario e dell’interesse personale, approfittando delle fragili condizioni del paziente-cliente, e al quale, nella società odierna, si dà forse troppa autorevolezza, dimenticando spesso che chi ha esercizio in questo settore tenta di oggettivare situazioni e ingranaggi mentali nei quali per primo può cadere, in quanto, appunto, essere umano.
Contrariamente a quanto ci si possa aspettare dalla prima scena, carica di tensione e quasi angosciante, la regia, guidata da Carolina Raquel Sylwan, imposta con il pubblico un approccio quasi familiare, è efficace e di facile fruizione, piena di artefizi davvero originali, che talora mostrano, come nella scena in slow-motion, la capacità espressiva degli attori; Maria Concetta Gravagno, Alessandro Lussiana, Federico Manfredi e Marcello Mocchi hanno offerto un’interpretazione scenica molto coinvolgente