Con: Gaia Aprea, Paolo Serra, Claudio Di Palma, Alfonso Postiglione, Sabrina Scuccimarra, Paolo Cresta, Serena Marziale, Alessandra Pacifico Griffini, Giacinto Palmarini, Federica Sandrini, Gabriele Sauro, Enzo Turrin.
Scene: Maurizio Balò
Luci: Gigi Saccomanni
Musiche: Ran Bagno
Coreografia: Noa Wertheim
Prodotto da: Teatro Stabile Napoli/Teatro Stabile Verona
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Il Teatro di Anton Cechov è uno dei più difficili da mettere in scena e i motivi sono tanti; in primo luogo, come anche lo stesso autore soleva dire, le sue opere sono drammi in cui non succede nulla, esattamente come nella quotidianità reale nella quale le grandi passioni tragiche di fatto non hanno mai luogo. L’azione avviene, perciò, in maniera sui generis, mai attraverso la centralità di un solo personaggio ma mediante un pullulare di voci e di impressioni individuali che conducono gli stessi dialoghi sull’orlo dello straniamento e che non culminano in nessuna svolta campale. I personaggi cechoviani sono estraniati nel tempo, nello spazio come se fossero distratti visitatori dell’esistenza umana, vivono di rimpianti o di ricordi nei quali il fattore cronologico assume un valore altamente simbolico. Eppure, lo stesso Cechov raccomandava che delle sue opere si preservasse il realismo e quindi, la naturalezza della recitazione alla quale molti a quel tempo non erano abituati.
I suoi testi, dunque, pongono più problematiche e soprattutto di doppia natura, non soltanto quella drammaturgica e del testo in sé ma anche registica. Non è possibile prescindere, difatti, dall’incontro con Stanislavskij, padre della regia moderna, il quale subì un’enorme influenza da parte del drammaturgo. L’esigenza di minuzioso realismo si sposa con quella della rivelazione psicologica dei personaggi, divenuti in Cechov tanti rispetto al dramma naturalista e borghese in cui predomina il salotto e poche campali figure; invece qui lo spazio diventa quasi pluridimensionale, si sfalda completamente la concretezza della scena di un Ibsen o di uno Strindberg e quella quasi dozzina di presenze è immersa in un tempo lontano eppure profondamente storico. Da questa bifrontalità nascono più scuole di regia (questo è dovuto anche, nel primo Novecento, al prevalere della figura del regista sull’autore e quindi alla consapevolezza che un singolo testo può avere molteplici adattamenti e interpretazioni) che mettono in scena Cechov seguendo sostanzialmente o la strada simbolista o quella naturalista.
Questa introduzione ci serve a riflettere sulla grande difficoltà di allestire “Il giardino dei ciliegi” e anche su quella di saper giudicarne il lavoro. Di alcune aporie tecniche e interpretative Giorgio Strehler ne parla nei suoi Appunti e nel Diario delle Prove (la sua storica regia risale 1973/4) convinto che l’estremizzazione simbolista come quella naturalistica possono annullare i caratteri più genuini dell’opera, avviando così una faticosa ricerca di un equilibrio.
Dunque, come il regista triestino, anche Luca De Fusco parte dalla questione della camera “ancora” dei bambini, quell’interno della casa che dà sul giardino, in cui i protagonisti Gaev e Lubov, teneri scialacquatori, ritornano dopo anni di assenza. La loro natura è rimasta infantile, di questo il regista ce ne rende la prova modulando la recitazione di Ljubov (Gaia Aprea) con un tono ciancioso, a tratti cantilenante, esattamente come quello di una bambina, mentre Gaev (Paolo Serra) ha una sorta di ironica gaiezza in cui sottace, ovviamente, la sua superficialità da intendersi come distrazione rispetto alla realtà. A far da contrappeso a questi adulti mai cresciuti, c’è Varja (Federica Sandrini) obiettivamente troppo responsabile rispetto all’andazzo della casa, lo studente trentenne Trofìmov (che Giacinto Palmarini caratterizza molto bene lasciando trapelare il carattere spinoso e le venature malinconiche del personaggio), e i servi Dunjasa, Šarlotta ma specialmente Firs (Enzo Turrin) che con la sua vecchia e paternalistica presenza avalla il complesso di Peter Pan dei due protagonisti.
Ebbene, all’apertura del I atto, Lopachin (Claudio Di Palma), Varja e Dunjasa, distesi sul palcoscenico come paralitici salutano il ritorno dei proprietari come se li vedessero in lontananza e tutto ciò che viene in seguito avesse in realtà il sapore di un’allucinazione. D’altra parte gli altri, fermi su una lunga scala bianca, danno l’impressione di una concezione temporale non naturale, del tempo come una moviola. I costumi e l’ambiente sono bianchi, come in Strehler, in quanto colore altamente evocativo. Poi riprendono i dialoghi, De Fusco ha voluto che emergesse un’inflessione meridionale che ponesse parallelamente l’ignavia dei nostri posti e storia con la malinconica passività della periferia cechoviana. L’elemento mediterraneo riesce a garantire la naturalezza espressiva, d’altro canto opacizza l’originale ironia dell’autore russo, determinante nelle sue opere.
La dimensione ludica del I atto simboleggiato dall’armadio, da giocattoli ancora esistenti all’interno della stanza sembra rifiutare, esattamente come fanno Ljuba e Gaev, l’inesorabile scorrere del tempo con il quale il ricco Lopachin li ammonisce decretando la futura perdita della tenuta. Ma il giardino è immobile, è lì, spazio in cui passato e presente si fondono divenendo una personale dimensione dei fratelli i quali eludono, con la loro gioconda imprudenza, i discorsi seri. Strehler ebbe l’intuizione di porre un velo dietro al quale si celava la Storia, separata dal Giardino, e che scorre poco distante eppure troppo lontana rispetto alla storia individuale dei protagonisti. Il giardino e le camere simboleggiano anche le fasi della vita umana in cui ogni personaggio è imprigionato: troppo grandi sono Ljuba e Gaev per essere così infantili, troppo grande Trofimov per essere uno studente, troppo piccolo è il bambino annegato per essere privato della vita e troppo vecchio è Firs per accettare che la Storia, dopo la rivolta dei servi, è cambiata.
Il II atto invece, visibilmente differente dal primo, ambientato all’aperto, ci permette di cogliere la valenza della scenografia di Maurizio Balò che intelligentemente utilizza la stessa scalinata per l’interno e l’esterno con l’introduzione di elementi ancora una volta ludici quale l’aquilone a testimonianza della vanità con la quale Ljuba e Gaev si pongono al cospetto del problema dei debiti, reiterato da Lopachin. Ciò riaccade in questa sorta di intermezzo da vaudeville mentre fioriscono gli amori fra la servitù e tra Trofimov e la giovanissima Anja (Alessandra Pacifico Griffini).
Il III atto è invece quello più complesso, quello del ballo dato mentre si attende l’esito dell’asta e quindi il ritorno di Lopachin e Gaev. Le musiche di Ran Bagno e le luci coloratissime di Gigi Saccomandi offrono allo spettatore un’atmosfera eccessivamente fiabesca. De Fusco sceglie di non far comparire il biliardo in scena, stessa decisione di Strehler ma preferisce calare i personaggi in una dimensione quasi metateatrale che va oltre le indicazioni del testo dal momento che i numeri di Šarlotta (istrionica Sabrina Succimarra) sono accompagnati da una grande varietà di luci e note musicali che derealizzano per un attimo il contesto cechoviano. Qui le musiche continuano in sottofondo, e la loro continua presenza nello spettacolo sacrifica l’elemento della pausa del silenzio che è parte della poetica di Antom Cechov, optando più che per un tocco elegiaco e nostalgico, per un acceso simbolismo.
Ma il biliardo – ricorda Strehler nei suoi appunti – è il simbolo del capitalismo che avanza ed ecco che segue la venuta di Gaev con la notizia che la tenuta è stata messa all’asta ed acquistata da Lopachin. Finalmente piomba il silenzio, è fra la scena più suggestiva. Una cesura, una pausa attraverso la quale la Storia s’insinua nella casa e urta contro i vecchi padroni. Al secondo atto Lopachin aveva narrato le sue origini, la natura rozza ed incolta della sua famiglia e, quindi, con l’acquisto del giardino è divenuto un ricco proprietario a tutti gli effetti. Ma il riscatto è puramente economico come si evince dal destino della tenuta che sarà trasformata in una sequenza di villette per i villeggianti perché tanto, la stazione è vicina. E, quindi, il giardino che separava dalla realtà non ha più motivo d’esserci, bisogna pagare un tributo al nuovo che avanza, al progresso economico ed industriale.
E siamo così al IV atto, ritorniamo nella stanza dei bambini in cui tutto s’immagina coperto con teli ulteriormente bianchi. De Fusco, invece, contorna la scena con del polistirolo come se intuisse che tutta quanta la casa in realtà sia un’enorme giocattolo o una scatola magica da preservarsi, assai fragile. Inoltre, riserva alla fine, l’utilizzo della ripresa cinematografica che proietta in bianco e nero i volti dei personaggi in procinto di salire per l’ultima volta quella lunga scala bianca per poi menarsi a turno, in uno spazio misterioso come una sorta di bambole. Resta, invece, Firs il fedele servo dimenticato e ammalato ma che è l’unico al quale è concesso di restare e morire tra quelle mura.
La tecnica della proiezione cinematografica che De Fusco ha adoperato per le sue precedenti regie rallenta il ritmo del IV atto, sacrificando lo spirito elegiaco e nostalgico che Cechov lascia trapelare nella semplicità dei suoi dialoghi e nella realtà dei suoi personaggi che vengono qui resi ieratici come gli aristocratici Antonio e Cleopatra.
Le luci e le musiche sono eccellenti, scelte ad hoc per rendere “Il giardino dei ciliegi” a volte più derealizzato di quanto ci immaginiamo e poeticamente trasfigurato correndo il rischio di far dimenticare che Cechov è pur senza supporti di questo genere, pregno di emozioni e significati.
Tuttavia, il contrappeso del “lessico familiare” non apporta nessuna ulteriore credibilità ai personaggi che già lo sono, tranne per alcuni come Pišcik (Alfonso Postiglione) che con la sua perseveranza a chiedere denari ha il vago sapore di una comicità nostrana che ricorre anche nell’intermezzo di Šarlotte del II atto a mo’ di pastiche linguistico.
Ogni regista dispone al meglio delle sue intuizioni e stavolta il confronto con il testo implicava una grande sfida anche guardando alle precedenti storiche regie e relativi filoni. De Fusco se n’è intelligentemente sganciato quando chiama in causa il nostro mondo mediterraneo, cercando di perseguire un’originale punto di vista a prescindere dall’universalità del testo; inevitabile pensare ai Salina siciliani de Il Gattopardo, ma è così impercettibile la consapevolezza della storia nel comportamento infantile di un Gaev o di una Ljubov che è assente ogni fatalismo cinico che rinveniamo in Tomasi di Lampedusa, perché dalla nostalgia, dall’eco di un treno che passa accanto alla tenuta, simbolo del progresso ma che i protagonisti non odono, nasce l’unicità di Cechov.