Latrati di cani fendono il buio, un livido chiarore si spande sul corpo esanime nella fredda sabbia dell’idroscalo di Ostia. Nella notte del 2 novembre 1975 intorno al cadavere dello scrittore di Casarsa si aggira smarrita una figura, materializzazione dell’essenza poetica di Pasolini.
Se è vero che negli istanti finali dell’esistenza tutto il vissuto si sostanzia in un immoto presente, lo spirito del poeta aleggia sul suo cadavere e si racconta, la morte esprime la vita.
Testimone della propria fine, descrive la sua ultima sera, l’incontro con Pelosi, la sosta all’idroscalo, attanagliato da una solitudine lancinante, in cui affoga il pretesto del sesso. All’improvviso bieche figure aggrediscono l’uomo, scaraventando lontano il giovane riccioluto. “Come avete potuto credere che io avessi aggredito il ragazzo, io che non ho mai esercitato un atto di violenza fisica o morale, io che mi sono sempre affidato alla mia natura, cioè alla cultura. La mia vita ha disceso una china, la mia storia un’altra”. Sbalordiscono le parole che descrivono la scena del delitto, tratte da una poesia scritta pochi anni prima della morte.
È un fantoccio il corpo trovato all’alba, ma la sua voce risuona nelle nostre coscienze, profetica e visionaria interprete del nostro tempo, del nostro destino, dei nostri errori, dei nostri misfatti
Mentre scorrono sul fondale alcune immagini, parla con nostalgia dei quartieri proletari di Roma: il Quarticciolo un tempo abitato da giovani siciliani e pugliesi dei quali è rimasta traccia solo nella toponomastica, protagonista della resistenza e base operativa della banda del Gobbo; il Pigneto immortalato nel film Accattone. Racconta la genesi di Petrolio, romanzo incompiuto e atto di denuncia dell’involuzione della società italiana che vive uno sviluppo senza progresso, incarnato in un modello economico che induce i ragazzi proletari ad imitare i borghesi pariolini, che ruota intorno all’Eni di Mattei e del conterraneo Cefis e alla matrice oscura delle stragi. E poi, la lunga sequenza delle vittime di Piazza Fontana, la profetica descrizione dell’esodo del terzo mondo contenuta nella raccolta Alì dagli occhi azzurri, fino agli ultimi fotogrammi del Vangelo secondo Matteo.
Ragiona a lungo sulla morte, urla la sua rabbia per l’adesione del proletariato ai modelli borghesi, soggiogato dalla società dei consumi che ha fatto strage dei valori e della cultura. La lucida capacità di analisi gli consente di anticipare ciò che si sarebbe verificato nel tempo a venire, non perché sia profeta, sostiene, ma per l’intrinseca capacità dello scrittore che osserva il mondo.
Nessuno più di Herlitzka, con la valenza drammatica e poeticamente modulata della sua voce e l’aderenza fisiognomica alle figure dell’universo pasoliniano, avrebbe potuto realisticamente incarnare questo ruolo.
Con questa drammaturgia che rielabora poesie, testi e documenti di e su Pasolini, Gianni Borgna rende omaggio al pensiero “eretico e corsaro” e alla lungimiranza politica e sociale dello scrittore. Saggista, politico, a lungo assessore alla cultura di Roma, studioso di Pasolini che ha conosciuto personalmente, Borgna si è molto adoperato per la riapertura del processo, rifiutando la tesi del colpevole unico.
La regia di Antonio Calenda, che a lungo ha inseguito questo progetto, pone al centro del palcoscenico la morte, attorno alla quale si muove, vivo e immortale, il pensiero personificato che riversa sul mondo un flusso di riflessioni, veicolate dalla voce di Roberto Herlitzka che si cimenta anche nel friulano.
L’algida scenografia è di Paolo Giovanazzi, le luci (che spesso precipitano nel buio) di Nino Napoletano.
Lo spettacolo partecipa al progetto Roma per Pasolini che il Teatro di Roma dedica alla perenne attualità del suo pensiero.