Se è più facile immaginare un personaggio di una novella “adattato” e portato sul palcoscenico, è cosa alquanto desueta trovarsi di fronte un personaggio che, uscito sia dalla letteratura che dalla scena, torni in scena dopo essersi “riscritto”. Succede a Leone Gala, protagonista della commedia o pirandelliana “Il giuoco delle parti” già portato in scena da Umberto Orsini una quindicina d’anni fa all’Eliseo, allora diretto da Gabriele Lavia. Al tempo la trasposizione teatrale era stata piuttosto pedissequa, il testo di Pirandello presentava un Leone Gala estremamente cinico e rigoroso nel seguire la sua ragione borghese. Il gioco è il classico triangolo. Leone è un uomo cinico e disilluso, Silia una moglie capricciosa e il Guido Venanzi l’amante ufficiale, che Leone condona alla moglie previo rispetto delle buone norme borghesi. Leone nel frattempo filosofeggia con Filippo, il suo cameriere che ha soprannominato Socrate e si diletta in cucina, mentre la moglie si dispera per la distanza che il marito le riserva. Piena di rancore chiede all’amante di assassinare il marito. Costui rifiuta e allora la moglie ricorre a un altro espediente: essendo stata aggredita e offesa perché scambiata con uan prostituta d’alto bordo “Pepita” che vive nello stesso palazzo, chiede soddisfazione al marito. Vuole che il marito sfidi a duello chi l’ha offesa e che l’amante faccia da padrino. Il marito ovviamente annusa la trappola, dapprima accondiscende, poi manda l’amante al macello. In questa regia e riscrittura del testo (che poi è la parte fondamentalmente più interessante perché svela lo strettissimo legame che c’è tra la letteratura al teatro, e che personalmente la chiave di lettura critica che trovo più affascinante) fatta dal giovane regista Roberto Valerio, troviamo Leone all’interno di una complessa macchina scenica che trasforma il ruolo dello scenografo – Maurizio Balò – in co-autore dello spettacolo. In scena troviamo infatti una “stanza della tortura” che è “una macchina del tempo”. Un luogo in cui abitano contemporaneamente sogno, allucinazione, presente e passato. Orsini parte da un presupposto interessante: fino ad ora Leone è sttao il simbolo della ragione che schiaccia tutto e tutti. E se invece Leone Gala fosse uno che sragiona? E soprattutto: dove aver consumato la sua vendetta, cosa resta di Leone Gala? Eccolo infatti, aggirarsi su una sedia a rotelle, vecchio e solo. Visitato dai suoi fantasmi, costretto a rivivere in eterno gli eventi, suppliziato come Sisifo. Grandissima interpretazione quella di Orsini che sfata il mito dell’imperturbabilità. Che sconfessa il dominio della ragione. Che scalcia la sopraffazione. Perseguire la banalità del male, la vendetta, consegna l’uomo unicamente alla solitudine.
Un messaggio importante quello che porge Orsini che da poco ha fondato una sua compagnia, sfidando la crisi, mettendoci del proprio in nome di un amore grande. L’amore per il teatro. E l’amore presuppone sempre grande generosità. Così Orsini, il maestro, spiega la scelta di fondare una compagnia: “… vorrei lasciare questa eredità a quanti camminano con me ora e cammineranno un giorno senza di me ma carichi di una conoscenza che viene da molto lontano e che io mi sento felice di trasmettere”. Un discorso, questo, che nessuno fa. Purtroppo.