Immaginiamo un uomo, un dottore, un filosofo, ma di quelli speciali, di quelli che cambiano il mondo: il suo nome è Sigmund Freud, è il padre della psicoanalisi, è il primo indagatore della mente umana, ma ciononostante, nel momento più critico, forse l’unica persona che non è riuscito a curare, a confortare, a capire, è proprio lui stesso. Nell’inverno della sua vita, nega quella malattia di cui non poteva non capirne l’importanza; il suo mondo diventa una piccola isola del dolore che galleggia su un mare di indifferenza: malgrado le sue condizioni, non mostra segni di irritabilità o lamentele, cercando solo un modo per scomparire da questo mondo con decenza. La stanchezza, però, la vecchiaia e la malattia lo scoprono vulnerabile e disperato, lui, che per tutta la sua esistenza, ha lottato contro la disperazione degli altri uomini. Forse è per questo che Dio ha scelto di andarlo trovare sotto le mentite spoglio di un pazzo… O forse è solo un pazzo che afferma di essere Dio, o magari è l’essenza del Male, che si manifesta in una Vienna del 1938 occupata dai tedeschi nazisti. Su questa tela Schmitt, autore belga contemporaneo, dipinge la sua storia, con le tematiche a lui più familiari, quali il taglio filosofico, religioso, e l’analisi introspettiva e psicologica dei suoi personaggi. “Il visitatore”, testo edito nel 1993, si è aggiudicato 3 premi Moliére (Miglior Autore, Rivelazione Teatrale, Miglior Spettacolo di Teatro Privato), uno dei riconoscimenti più prestigiosi per il teatro in Francia. In Italia è la terza volta che viene messo in scena, dopo le rappresentazioni del 2003 con Turi Ferro e Kim Rossi Stuart e quella del 2006 con Marco Predieri. Quella a cui assistiamo in questi giorni al Teatro della Pergola, è un’opera che ha la regia di Valerio Binasco, il quale, in una scena divisa fra luce ed ombra, contrappone in un rapporto antitetico le due figure di Freud e del “Visitatore”, interpretate rispettivamente da Alessandro Haber e Alessio Boni, che con grande maestria duellano a colpi di quesiti sul senso della nostra esistenza, del Bene e del Male, del mistero della vita e della morte, fino ad arrivare alla “poesia sublime dell’essere e del non essere” (Haber), senza cascare nel melodrammatico, ma con ironia e sarcasmo. Haber/Freud ci mostra un uomo provato dalla malattia, e dal terrore che si sta spargendo per Vienna e per l’Europa, scettico e quasi diffidente davanti al Visitatore/Boni, che gli si manifesta davanti, nei panni di un matto, di un disadattato, di un clochard, barba incolta, ricci fluenti, ma con la sicurezza tipica di chi è pienamente cosciente delle sue argomentazioni, del suo “Io”, ma che sa anche apparire fragile ed umile, parlando del dramma e dell’infinita solitudine e noia di Dio. Umorismo, dunque, ma anche dolore, due linee che si intrecciano in quell’infinito dualismo fra fede e scienza, tra la libertà e la cattiveria dell’uomo e la volontà di Dio. Domande che l’uomo si pone da sempre, che rendono questo testo universalmente attuale, e che inevitabilmente rimangono senza risposta. Grande interpretazione anche da parte dei co-protagonisti Nicoletta Robello Bracciforti/ Anna Freud (la figlia) e Francesco Bonomo, straordinariamente bravo nei panni dell’ufficiale della Gestapo.
Applausi a scena aperta e pubblico in piedi, non solo come apprezzamento della grande interpretazione e dell’emozione evocata in un’ora e quaranta minuti di spettacolo che scivolano via, ma anche per ringraziare per l’empatia ed il coinvolgimento, per il cuore che è stato messo nella creazione di questa pièce nella quale tutti i pezzi combaciano alla perfezione.
Alla fine degli applausi, Alessandro Haber e Alessio Boni, salutano e ringraziano il pubblico per la compartecipazione e confessano la loro commozione, l’uno salutando il maestro Luca Ronconi, recentemente scomparso e l’altro confessando la sua emozione calcando per la prima volta il palcoscenico della Pergola, luogo in cui ha vissuto e lavorato uno dei suoi grandi maestri, Orazio Costa. Ciò che ha regalato questo spettacolo agli appassionati di teatro ha rispettato il “testamento” lasciato da Orazio Costa, riportato sulla targa in marmo davanti alla Pergola: “Diverrete poesia aitante, metamorfosi perenne dell’io inesauribile, soffio di forme, determinati e imponderabili, di tutto investiti, capaci d’assumere e di dimettere passioni, violenze, affezioni, restandone arricchiti e purificati…”.