Testi e musiche di Raffaele Viviani
Regia: Alfredo Arias
Con: Massimiliano Gallo (Samuele), Monica Nappo (Zenobia), Tonino Taiuti (Bagonghi), Carmine Borrino (Giannetto), Lorena Cacciatore (Nicolina), Gennaro Di Biase (Bettina), Giovanna Giuliani (Giannina), Lino Musella (Roberto), Marco Palumbo (Don Ciccio), Autilia Ranieri (Marietta), Mauro Gioia (Narratore)
Musicisti: Giuseppe Burgarella (pianoforte), Gianni Minale (fiati), Alberto Toccaceli (percussioni), Marco Vidino (chitarre e mandolino)
Scene: Sergio Tramonti
Produzione: Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Teatro di Roma
————-
Un sipario a scomparsa raffigurante piazza Mercato si apre non appena alcuni musicisti hanno preso posto lungo lo spazio, sorta di golfo mistico, sotto il palcoscenico. Musiche barocche, quasi festose ad accompagnare l’alzata del sipario mentre sfarzosi abiti riempiono con i loro colori la circonferenza circense, posta qualche passo indietro alle due baracche di legno ai lati della scena. In tal modo lo spazio di tutto l’assito viene scomposto su due piani, costituendo al contempo, insieme al fondale arrecante lo stesso quadro sul sipario, un’unica dimensione in cui i personaggi agiscono coralmente. Un narratore (Mauro Gioia) in frac recita la didascalia d’apertura del primo atto dell’opera di Viviani. L’ha scritta nel 1922.
Lo spettacolo inizia; il pretesto del circo che per Raffaele Viviana era un contesto in cui, ancora una volta, inscenare una quotidianità aspra e sacrificata, per il regista argentino Alfredo Arias diviene la base per ri-creare un abile gioco performativo ricco di gestualità, atti, inserzioni canore e musicali, repertorio dello stesso drammaturgo condite da richiami ai numeri della rivista – del resto Viviani inizia nei teatrini del sottoproletariato del primo novecento – del tutto napoletana.
Un ulteriore elemento caratteristico dell’allestimento si coglie in relazione alla sfera interpretativa e attoriale: Giannina, ad esempio, moglie infedele del protagonista Samuele (bravissimo Massimiliano Gallo) impersonata da Giovanna Giuliani è distante dalla mimesi realistica, riprende infatti quella suggerita dall’arte circense. Non a caso alcuni personaggi restano sempre incipriati, in primis Samuele, e ciò sta a significare quanta osmosi fra circo e vita ci sia alla base del lavoro di Arias. Così la donna “serpente”, l’arpia Bettina, interpretata da un attore Gennaro Di Biase, possiede l’effervescenza linguistica e motoria che si confà al genere en travestì. Anche Bagonghi (il brillante Tonino Taiuti) resta con la cipria sul volto mentre alcune donne, il fiorentino Giannetto (Carmine Borrino) e l’ardito Roberto (Lino Musella) agiscono senza. Il fatto è che il circo, ovvero quella circonferenza sita appena sul retro delle loro baracche, specie con il suo frenetico ritmo, straripa sino ad invadere l’intimità di uomini e donne inviluppati nelle rispettive infelicità. E così che la scena del piatto di spaghetti, quando la povera Zenobia (Monica Nappi) lo appoggia sul secchio a mo’ di tavolo per Roberto che frattanto amoreggia con la giovanissma Nicolina (Lorena Cacciatore) avviene in slow motion, sembra un numero da circo o un rito, e difatti la povera moglie ha un velo azzurro-mariano – sostenuto dalla coppia Bagonghi-Bettina, mentre in ginocchio a mo’ di committenti di un quadro religioso, ci sono i fedifraghi Giannetta-Giannino. L’onirismo investe la realtà. E ancora, la scena del sogno delle polpette fatto da Samuele assume un contorno allucinogeno che contrasta con la recitazione del protagonista che resta reale, con una modalità quasi eduardiana. Sembra essere costruito tutto intorno a lui come un grande inganno, quasi come “La vita è sogno”, si alternano canzonette e scenette, sogni e sotterfugi che aleggiano a mo’ di Rivista e dei suoi tanti numeri. A guidare lo spettatore vi è il narratore, come fosse l’alter ego dello stesso autore, pura voce extra-diegetica che avrà un ruolo fondamentale per la (ri)organizzazione del III atto.
Il circo, dunque, investe la vita, i gesti, i dialoghi innestando un’estraniante immagine di ogni personaggio. Sicché la giovane Nicolina, presa dalla passione per Roberto, ha la marionettistica gestualità di una bambola mentre tutto l’eros viene veicolato dal corpo della madre Marietta (Autilia Ranieri) che concupisce lo stesso uomo. Un’eco dolorosa che echeggia dopo la fuga degli amanti, accenni all’opera dei Pupi, e tutto ha un ampio respiro di regia europea che sperimenta vocazioni attoriali divergenti. Quasi felliniana la visione d’insieme di questo grande circo che chiude a mano a mano le sue tende, sulla scia della struggente presa di coscienza della realtà, quella che Viviani non tace assolutamente ma che rende vivida attraverso la sua lingua; queste esistenze pullulano ai margini della società, avvolte in un’estrema solitudine, membri di piccole comunità destinate a perdersi. Lo riusciamo a capire finalmente con l’abbraccio di Zenobia e Don Samuele, l’ultima scena con la quale termina il secondo atto.
C’è da dire sul terzo atto una serie di osservazioni. Arias sceglie di rappresentare l’atto a sipario abbassato (dal momento che il Circo Sgueglia è prosciolto da un susseguirsi di eventi funesti e non). Sceglie, inoltre, di raccontare le vicissitudini dei singoli protagonisti interpellando ciascuno di essi dinanzi al microfono dove cantano la propria storia. Tuttavia l’interazione burlesca col pubblico stempera la tensione emotiva e poetica delle ultime battute. La musica termina, le luci si spengono, ultime vestigia di uno spettacolo di grande impatto visivo e ritmico.
Circo Equestre Sgueglia ha degli interpreti nostrani, fra i più bravi, è diretto da un regista franco-argentino di rilievo internazionale, e il testo originale è quello di Raffaele Viviani, datato 1922. Una grande produzione, dunque, del Napoli Festival che dispiega ampie energie. Viene da chiedersi, però se il contenitore barocco – seppur con interpreti eccellenti – in cui Arias sceglie di inglobare il suo Circo Sgueglia, con lo sfarzo dei colori, la scelta di una particolare tecnica attoriale e con la sua vocazione per l’opera musicale devii in qualche modo dal crudo realismo per il quale Raffaele Viviani ha spesso avuto, specie nel ventennio fascista, una fama controversa. Forse non è detto che la necessità odierna in relazione a questo drammaturgo sia esattamente come quella per Eduardo – i tempi sarebbero maturi per il superamento di rappresentazioni stantie e relegate alle tradizionali compagnie –. Resta difatti una parzialità conoscitiva circa l’opera di Viviani che probabilmente sarebbe il caso di recuperare, specialmente in riferimento al suo ruolo innovatore, quasi d’avanguardia per alcuni aspetti, della nostra cultura. Il timore è che la spettacolarità della macchina teatrale possa offuscare queste peculiarità che non andrebbero messe in secondo piano.