con: Rino Di Martino
regia: Antonella Morea
Produzione Fondazione Teatro di Napoli
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L’allestimento di Mamma – Piccole tragedie minimali di Annibale Ruccello, curato da Antonella Morea è all’undicesimo anno di età. È tornato al Piccolo Bellini di Napoli che l’ha visto nascere nel 2004 e a distanza di anni ha tutta l’aria di essere uno di quegli spettacoli cult per chi conosce una certa drammaturgia.
Luci gialle, viola, azzurre e blu puntate sull’unico interprete Rino Di Martino sfumano la scena piena di coriandoli. Una tendina verso il fondo, turchese e un enorme specchio. Intorno cumuli d’immondizia, serviranno Maria di Carmela ovvero “Piccolo delirio manicomiale”. Quindi sussiste una coesistenza di riferimenti di tutti e quattro gli episodi convogliati sotto le luci colorate che attribuiscono a tutta la scena un’atmosfera fiabesca giacché ogni storia è intervallata dalla narrazione del Cunto – le fiabe in realtà testo del primo episodio che la Morea scompone in quattro parti, come nesso narrativo fra gli altri tre piccoli monologhi; microfiabe raccontate dietro lo specchio mentre si ha a che fare con faccende domestiche costituiscono l’intelaiatura dello spettacolo, una sorta di rovescio, contrappunto rispetto al realismo proposto dai singoli episodi. Pare quasi che si volesse capovolgere il senso della “cornice” letteraria e canonica, quale legame narrativo e drammaturgico di una pluralità di scene, facendo del cunto non il contenuto come nelle opere di letteratura, ma il contenitore. E così che s’intravede l’Annibale antropologo, cultore dell’opera di Basile e della seicentesca Cantata dei Pastori, che ricerca nel vernacolo con il quale scrive una simile forza icastica, grottesca, immaginativa che reca a tutta quanta la drammaturgia una maggiore teatralizzazione.
Il primo (il secondo in origine) degli episodi narra di un delirio manicomiale che vede una donna aggirarsi fra i sacchetti neri di plastica che scambia per monache che si credono infermiere, mentre blatera inni mariani e canzonette italiane anni ’80, credendosi ora di essere la beata Vergine, ora di aver ingannato tutti asserendo di chiamarsi Orietta Berti.
La variazione delle luci suggella il transito da una narrazione e l’altra, si riprende il registro del Cunto, delle mani da una quinta laterale sono speculari ai gesti di Rino Di Martino che nuovamente seduto dietro la grande cornice prende di nuovo a raccontare. Sottofondi sonori accompagnano il racconto fiabesco al termine del quale s’interseca il monologo Il mal di denti ovvero “madre e figlia” mutuato da Notturno di donna con ospiti, altra commedia di Ruccello. Una musica neomelodica fa da sfondo alla scena calata a pieno in un ambiente estremamente provinciale, esattamente come l’ultima micro-storia La telefonata nella quale stavolta sigle dei cartoni animati si alternano ad uno sciorinamento comico di nomi riferenti alle soap in voga negli anni ’80. Entrambe le piccole tragedie minimali perdono l’onirismo della prima, mantenendo quel linguaggio popolare vernacolare infarcito da esilaranti malapropismi afferenti alla sotto-cultura dei media e dei fenomeni da barraccone di quegli anni.
Minimali perché tragedie comuni e quotidiane inglobate in un discreto interno abitato da piccole donnine di provincia, artefici di distorsioni linguistiche, parte di un mondo che resta sospeso fra i quartieri popolari delle nostre periferie e quello veicolato dal trash della tv.
Queste Piccole Tragedie ritornano alla ribalta dopo vari anni, inalterate nella loro freschezza. C’è chi conosce bene i testi di Ruccello, chi ne ricorda nostalgicamente le rappresentazioni quasi come se fossero una breve e magica parentesi della Napoli teatrale degli anni ’80 cristallizzata ormai nello scorrere del tempo. Un unicum forse che anche ai più giovani appare come caso di una specifica drammaturgia dalla quale scorgere acerbi semi di respiro ampiamente europeo, senza che ci sia stato il tempo di vederli maturare.