Ancora una volta Cauteruccio ci conduce in spirali infere, trasferendo il testo estremo di Pirandello “Uno, nessuno e centomila” in un territorio mutante, fitto di allucinazioni e metamorfosi ultra(extra)terrene.
In una “stanzetta” delimitata da pareti di tenebra e, in verticale, ai lati, da formazioni di sottili cilindri d’acciaio (tre a destra, una a sinistra) cui sono fissati degli altoparlanti che diffondono voci e frammenti di dialoghi provenienti dalla vita “di prima”, è situato (verso il fondo, in posizione centrale) un piano inclinato – letto o superficie serica e increspata di pianeta alieno, sotto la quale si muovono lente e sinuose forme di vita – munito di un foro.
In questo buco beckettiano, che tuttavia permette un ampio gesticolare della parte superiore del corpo, è imprigionata Anna Rosa, amica e confidente di Vitangelo Moscarda.
La donna, una Winnie più articolata e concitata, trastullandosi a tratti con una pistola (un gingillo di madreperla e acciaio), spesso doppia e amplifica fisicamente e vocalmente la narrazione sincopata che Vitangelo fa degli accadimenti.
Giancarlo Cauteruccio scoscende la scorza verbale del romanzo, e scava e porta alla luce dissonanze ilari e atroci, si addentra sempre più nel buio dell’ingolfamento psichico di Moscarda attraverso la prova immensa del fratello Fulvio, che realmente mostra, soffrendo nel corpo, il distacco di Sé dall’Altro, lo sconcerto controllato di fronte alla proliferazione di identità posticce, occasionali o fissate una volta per tutte, generate dallo sguardo altrui (parziale, travisante, di continuo distratto, autoreferenziale, guidato magari da segni minimi come la leggera inclinazione a destra del naso), in primis della moglie Dida.
Dentro questo decorso mentale, apparizioni di femmine eleganti e sussurranti scivolano su pedane mobili da una parte all’altra della “stanza”, o d’improvviso il fondale si fa blu elettrico mentre un crepitio di pioggia invisibile induce Anna Rosa e Vitangelo ad aprire ombrelli dai riflessi metallici. O si manifesta, grazie a un altoparlante, la personalità del padre del protagonista, banchiere e usuraio.
Di immagine in suono (elettronico), l’argomentare incessante di Moscarda si avvita sempre più nel legno dolente del nucleo umano, e i toni sarcastici assumono a tratti una colorazione misuratamente disperata. Il grande specchio trapezoidale che appeso al Nulla sovrasta la scena riflette, variando la pendenza, ora l’agitarsi vano delle dramatis personae, ora le “foto morte” degli spettatori. La Creatura ormai larvale si inabissa in un sottosuolo metafisico senza sbocchi (“vuoto nel vuoto, nudo fino alla paura”), desiderando di “esistere solo come albero, come pietra”. Ci troviamo in prossimità di Manganelli e del suo “Dall’Inferno”; torna in mente la voce ondivaga del protagonista, il lucido delirio dei suoi ragionamenti: “Non riesco a sapere se io stesso sono inferno […] è il mondo imitatio inferni, o l’inferno ricalco di codesto mondo? Non vi è dunque transito se non da notte a notte?”.
Nell’ultima scena, di rara densità emotiva, vediamo la Creatura, sprofondata fino al collo in una coperta verde “come la campagna, come un campo di grano”, mentre contempla all’interno della propria memoria il passaggio delle nuvole, prima che giunga il nerore definitivo a ingoiarsi anche gli ultimi ricordi, o che tutto ricominci daccapo, all’infinito.
Oltre ogni applauso, oltre ogni elogio. Non resta che inchinarsi davanti alle salvifiche torture di Giancarlo Cauteruccio, Maestro della Perdita e della Perdizione.