Il teatro d’autore di Giuseppe Manfridi, con la potenza evocatrice della parola, traspone l’universo percettivo, emotivo e creativo di Pollock nella drammatizzazione di un evento impercettibile e istantaneo (gli attimi successivi alla sua morte), intorno al quale si sviluppa un intreccio di dubbi, interrogativi e disvelamenti che fanno da cassa di risonanza ai recessi del mutevole e instabile animo umano, trasportando la vicenda in un altro piano di realtà.
L’anteprima nazionale di questo testo, di cui l’autore cura anche la regia, ha aperto la stagione del Teatro dei Conciatori, dopo la mise en espace di febbraio al Teatro dell’Angelo.
Visionaria, serrata, poetica e contraddittoria, la progressione del dialogo sincopato e allusivo tra l’uomo e la sua misteriosa interlocutrice mette lentamente a fuoco le identità dei protagonisti e la dinamica dell’incidente.
Il buio della notte avvolge gli alberi, un uomo si interroga sulla sua condizione, esternando le angosce di artista controcorrente che patisce la distanza fra sé e gli altri.
La “distanza”, filo conduttore delle sue riflessioni: fra i corpi, le cose, le parole, le domande e le risposte, il pennello e la tela, il pensiero creativo e l’opera realizzata. Distanza colmata dagli schizzi di colore sulla superficie, con una tecnica molto scandalosa che è deiezione, espulsione.
Da questo delirio farneticante inizia a delinearsi la figura di Jackson Pollock, il pittore che realizzava le opere facendo sgocciolare il colore puro con pennelli induriti, siringhe e bacchette sulle tele stese sul pavimento, secondo una delle tecniche dell’action painting. Inasprendo la concezione dell’atto creativo espresso tramite il colore, arrivò a dipingere con tutto il corpo su cui esercitava un forte autocontrollo per ottenere il risultato desiderato, girando vorticosamente intorno alle tele spruzzando, gocciolando e spatolando il colore in un caos magmatico precostituito.
Dalle tenebre emerge una donna che lo incalza, lo contraddice, lo accusa mentre tenta di farsi riconoscere. Lampi di reminiscenze attraversano la mente dell’uomo: la moglie cui deve la vita, l’amante Ruth. Sì, proprio lei che, raccolto un frammento contorto di lamiera lo accarezza lasciandogli uno sbafo rosso sulla guancia con la mano ferita, essendosi aggrappata al burrone in cui stava per sprofondare. Jack ribatte che si tratta della vernice dei suoi quadri, Ruth gli mostra i segni delle gomme sull’erba, le bottiglie sparse.
È un sogno? chi sogna ed è vivo, e chi è morto e si materializza nel sogno?
L’energia, il magma, il vortice artistico di Jack si sono dissolti nei brevi istanti che separano la palizzata divelta dall’automobile uscita di strada dal fondo del burrone in cui è precipitata.
Bottiglie (di alcool) e barattoli (di vernice) tutt’intorno.
È ormai incolmabile la distanza tra chi sogna e chi è sognato, tra chi ha coscienza di sé e chi si interroga sul suo essere: “chi sono? chi sono stato?”.
Finisce così la vita di Jackson Pollock, l’11 agosto 1956 a 44 anni, guidando ubriaco al ritorno dal mare con a bordo Ruth Kligman e l’amica Edith Metzger perita nell’incidente.
Giuseppe Manfridi incarna il ruolo del pittore con l’intensa passione che siamo abituati a vedergli trasfondere nei personaggi scaturiti dalla sua vocazione drammaturgica. Nelly Jensen, sensibile e delicata, conquista progressivamente lo spazio scenico fino a misurarsi con Manfridi/Pollock nel finale, indirizzandolo con tenacia verso la presa di coscienza della sua responsabilità.
La voce fuori campo di Fabrizio Pucci accompagna le immagini del video di Stefano Sparapano.
Il testo, pubblicato dalla Casa Editrice calabrese La Mongolfiera, è in vendita al botteghino del teatro.