Melodramma in tre atti
Musica di Giacomo Puccini
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dall’omonimo dramma di Victorien Sardou
Personaggi e interpreti (secondo cast):
Floria Tosca: Svetlana Kasyan
Mario Cavaradossi: Mario Malagnini
Il barone Scarpia: Angelo Veccia
Cesare Angelotti: Cristian Saitta
Il sagrestano: Enric Martinez-Castignani
Spoletta: Cristiano Olivieri
Sciarrone: Armando Gabba
Un carceriere: Enzo Borghetti
Un pastore: Laura Franco
Maestro concertatore e direttore: Riccardo Frizza
Regia: Serena Sinigaglia
Scene: Maria Spazzi
Costumi: Federica Ponissi
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del Coro: Diana D’Alessio
Allestimento Teatro La Fenice di Venezia
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Nell’epoca odierna, quando fanatismi religiosi cancellano le vestigia del passato e decadenze socioculturali imbarbariscono il prossimo, sembra vacillare la convinzione del principe Miškin, secondo cui “La bellezza salverà il mondo”. Quanto sia difficile, o addirittura impossibile, sfuggire al potere corrotto della società, papalina o digitalizzata poco importa, lo dimostra Serena Sinigaglia che ambienta la lotta dei due amanti in una waste land ideata da Maria Spazzi, un anonimo agglomerato di tavolati lignei progressivamente rimossi a svelare cumuli di terra brulla. La regia manca però di uno sviluppo pieno e l’approssimazione degli interpreti è evidente indice di un non adeguato lavoro sui protagonisti perché Tosca pare più catatonica che combattiva e Mario uno scapolone asessuato. Non degni di nota i costumi di Federica Ponissi, come pure il light design di Alessandro Verazzi con tanto di occhio di bue durante le arie solistiche.
Nella mediocrità generale, Angelo Veccia convince come crudele Scarpia, sebbene non guasterebbe un fraseggio più incisivo. Ottimo l’Angelotti di Cristian Saitta, artista che meriterebbe parti estese per mettere in risalto le eccellenti doti canore. Nel ruolo eponimo, Svetlana Kasyan, che oltre a un disomogeneo e poco curato passaggio tra registri, manca di creatività nel fraseggio, di colori e di giusti accenti, causa anche il timbro non perfettamente limpido. Dove sono il gusto per i pianissimi e l’espressione richiesti da Vissi d’arte? Negativo il giudizio su Mario Malagnini, colpevole di celare le lacune – un eccesso di naso e portamenti disomogenei per esempio – dietro gli acuti incorporei, per altro sovente gridati, sapendo che il pubblico plaude ad essi, quando in realtà latitano intonazione, cromie sensuali e fraseggio convincente. Perfettibile il sagrestano di Enric Martinez-Castignani. Fin troppo verista lo Spoletta di Cristiano Olivieri, come lo Sciarrone di Armando Gabba. Completano il cast Enzo Borghetti, un carceriere, e Laura Franco, pastore assai corretto.
Riccardo Frizza ammanta la direzione di una costante drammaticità volta a risaltare appieno il sinfonismo pucciniano. Se ben eseguiti sono il Te Deum e il mattutino, giocato sullo stereofonico scampanio delle parrocchie sorelle tra cui si afferma perentorio quello di San Pietro, nel secondo atto tende a esasperare le dinamiche coprendo i cantanti, evenienza in fin dei conti gradita data la qualità.
Il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti, risolve discretamente il finale primo, ma convince poco nella cantata Sale, ascende l’uman cantico per disomogeneità e volumi. Ottima la prestazione dei Piccoli Cantori Veneziani, diretti da Diana D’Alessio, senza sbavature di sorta.
Applausi calorosi per tutti.