di Giuseppe Patroni Griffi
regia Francesco Saponaro
con Mascia Musy (Mariella Bagnoli), Fulvia Carotenuto (Gennara), Imma Villa (Urania e prostituta) Antonella Stefanucci (Margherita e prostituta), Valentina Curatoli (Antonia e prostituta), Edoardo Sorgente (Roberto, figlio di Mariella), Eduardo Scarpetta (Alfredo, amico di Roberto e Pascariello), Tonino Taiuti (Il maestro, marito di Gennara), Clio Cipolletta (Pupatella la cameriera e prostituta), Carmine Borrino (Michele, amante di Gennara), Giorgia Coco (Olga, ragazza di Roberto), Giovanni Merano (Un soldato americano), Anna Verde (Ester, moglie di Roberto)
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
musiche composte ed eseguite al pianoforte da Mariano Bellopede
aiuto regia Peppe Bisogno
assistente alla regia Giovanni Merano
assistente ai costumi Anna Verde
Produzione Teatro Stabile di Napoli
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In memoria di una signora amica è un dramma in quattro atti scritto da Giuseppe Patroni Griffi nel 1963 del quale vi è una trasposizione televisiva con Lilla Brignone, Pupella Maggio, Geppy Gleijeses e Massimo Ranieri.
Quattro atti, quattro capitoli diversi che coprono un arco temporale di cinque anni la cui crudele eco della guerra a Napoli è più viva che mai nelle pareti e fondamenta dei palazzi, ancora in bilico sulle voragini aperte dagli attacchi aerei tedeschi.
Nell’allestimento di Francesco Saponaro è ben tangibile la precarietà dello spazio, un appartamento i cui vani sono separati da tramezzi, come mura dimezzate, appena illuminati da un paio di lampade assai fioche; solo un’apertura sul golfo, ipotetica finestra, ci garantisce di essere in una vecchia casa borghese. La centralità della scena, all’inizio, è guadagnata dal tavolo da gioco attorno al quale le quattro amiche della padrona di casa Mariella Bagnoli (Mascia Musy), eseguono un’incalzante partita di poker. Il ritmo delle prime battute è veloce, le quattro interpreti (Fulvia Carotenuto, Imma Villa, Antonella Stefanucci e Valentina Curatoli) – la cui sinergia sarà sicuramente affinata nel corso delle repliche – con l’avvicendarsi dei loro turni giocano sui propri microgesti e voci che d’in tanto in tanto evadono in briose esclamazioni. Sono queste donne con o senza marito ma comunque allo sbando, ora giocatrici incallite alle quali si affitta una stanza della casa che se prima possedeva un elevato status sociale, ora è concessa anche all’ex domestica Pupatella (Clio Cipolletta) per prostituirsi ai soldati e colonnelli americani rimasti in città.
Uno scenario, dunque, decadente che necessita di luce smorzate e pareti provvisorie fra le quali gli abiti eleganti delle signore fanno da contrappunto. Tutto è filologicamente ricostruito dal regista che segue fedelmente il testo di Patroni Griffi, facendo del suo spettacolo una sorta di rinvenimento archeologico nel quale la linea di fondo ci riconduce a tratti – specie nell’introduzione di canti e nella scenetta del teatro popolare – a brevi scorci bozzettistici. La verità è che il conflitto intergenerazionale fra madre e figlio, il figlio di Mariella, Roberto (Edoardo Sorgente) congiunto a quello tormentato con la città dalla quale fuggire e poi tornare è permeata sin dalla drammaturgia originaria da un cechovismo che incasella i caratteri in una tipizzazione troppo familiare con la nostra tradizione teatrale perché il regista ne prenda le dovute distanze.
Pochi i tagli al testo che riguardano riferimenti troppo circoscritti all’attualità dell’epoca e l’ultimo atto, reso più asciutto rispetto all’originale. Gli attori ci accingono a portare alla luce fedeli parole di un autore quasi boicottato dalle cui pagine emergono affreschi chiaroscurali del dopoguerra partenopeo mai dimenticato. Un dopoguerra che ha portato insieme alla distruzione fisica dei palazzi e della città in genere, una sorta d’incapacità nel distinguere la necessità di fuggire da quella del restare, punto cruciale che incide pesantemente sul rapporto fra madre e figlio, Mariella e Roberto, emblemi di due generazioni differenti ma accomunati da un profondo smarrimento causato per l’una dalla nostalgia per un passato in cui gli ideali potevano ancora rimediare a ciò che sarebbe poi accaduto, e per l’altro dal senso di vuoto motivato dalla dissoluzione di quegli stessi ideali e dalla consapevolezza di non aver le forze necessarie per crearne di nuovi. Attorno ad essi vari personaggi: dalle amiche della protagonista al vecchio maestro di musica e marito di Gennara (Tonino Taiuti), dal giovane Alfredo (Eduardo Scarpetta) a Michele, amante di Gennara (Carmine Borrino) in bilico fra un realismo dal sapore decadentista e toni bozzettistici, quasi incancreniti dal loro essere immersi in un periodo rarefatto e confuso. Il terzo atto – peraltro ambientato a Roma – restituisce la summa dei conflitti fra i personaggi che non riescono ad andare oltre la loro gretta condizione dietro la quale appaiono trincerati. Sospesi fra rassegnazione e disperata consapevolezza sono difatti come simulacri che sfiorano con minute parentesi, lazzi di sceneggiata; “decorativi, pittoreschi, estemporanei” si dirà nel corso della rappresentazione nella quale proprio la parentesi del teatro popolare proietta sulle protagoniste l’angosciante minaccia di riconoscersi tali.
Saponaro pare azzardare un funambolismo fra realismo disinibito e tipizzazione che a volte paiono sovrapporsi e rallentare il ritmo dello spettacolo in cui svetta l’interpretazione di Mascia Musy che similmente a Lilla Brignone nella riduzione televisiva, conserva accuratamente il fascino e quella lingua piegata a inflessioni dialettali delle donne borghesi del tempo. Misurato il “concertare” delle voci femminili le cui passioni ed amarezze si oppongono ai toni pseudo-elegiaci della giovane generazione costituita perlopiù da Alfredo e Roberto.
Durante tutta la recita si ha però la sensazione che si acuisce la distanza fra il testo e noi; sembra quasi guardare a quei personaggi col cannocchiale del tempo che non permette di avvicinarvisi, inglobati in un sistema di idee e di scelte incuneato in quei precisi anni. Una lontananza che la regia non è riuscita a ridurre ma che invece l’ha sottesa più che altro all’esigenza di porre alla ribalta un autore e un dramma negato alle scene da anni.