Tratto dal racconto “Avanti sempre” del giornalista e coordinatore del progetto sulla Grande Guerra dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano Nicola Maranesi, “Milite ignoto – quindicidiciotto” è la prima rappresentazione del ciclo “Le Grandi Guerre” che il teatro Puccini porterà in scena per la stagione 2015/2016 (le altre due in programma sono “L’ultima estate dell’Europa” e “Il Soldato”).
Lo spettacolo è inserito tra gli eventi del programma ufficiale per le commemorazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione per gli Anniversari di interesse Nazionale ed è in lizza al Premio Ubu 2015 per la migliore novità italiana.
L’attore pugliese Mario Perrotta, seduto su dei sacchi di juta, non racconta una storia, o alcune storie; ne racconta quattro milioni e duecentocinquantamila, tante quanti erano i soldati, i giovani, che partirono da ogni parte d’Italia per combattere, per andare incontro all’orrore, per morire, per un progetto più grande, per la Patria, che in realtà non sapevano nemmeno che significato avesse.
Le emozioni vissute da questi giovani, che Maranesi ha descritto setacciando diari, memorie ed epistolari, sono squarci di esistenze che ripropongono lo spaesamento, la solitudine, il dolore di ogni soldato immerso in quella dimensione di orrore che è la guerra. Quella del 1915-18 però, non è una guerra normale. È la Prima Guerra Mondiale, ed è stata per gli italiani la prima esperienza collettiva, simultanea e di massa. Ha prodotto un fiume di scrittura: lettere, taccuini, diari, memorie, un mare di scrittura popolare, in massima parte autobiografica, coinvolgendo per la prima volta anche la classe contadina, che forniva il nucleo più numeroso all’esercito: armate di braccianti.
Quattro milioni e duecentocinquantamila militi, senza nome, ignoti, dimenticati come esseri umani e ricordati, forse, solo attraverso monumenti impersonali. La guerra non percepisce le persone come esseri umani, ma solo come obiettivi da colpire, come vittime sacrificali, come semplici numeri su una piastrina.
Perrotta invece, dà voce a ciascuno di loro: al siciliano, al piemontese, al napoletano, al fiorentino, al romano, al torinese, ad ognuno assegna un vissuto, un ricordo, un aneddoto.
Un lavoro enorme dal punto di vista recitativo, soprattutto linguistico: le voci dei “protagonisti” si accavallano, si alternano, in una Babele di dialetti, come se si trovassero tutti a parlare, a scherzare, seduti in tempo di pace ad un tavolino di un bar.
Sono tutti lì invece, soffocati in gabbie astratte, chiusi in trincee dalle quali forse non possono uscire se non per trapassare ad un’altra vita, vincolati ad azioni che si ripetono quotidianamente, sino a svuotarsi dei loro significati, ricercando normalità nella follia.
Si assiste alla metamorfosi dell’uomo in soldato catapultato nel fango, nel buio cieco di trincea tra corpi martoriati e sofferenze. Impossibile fermarsi, tornare indietro o uscire.
Parliamo quindi di una riflessione sul grande dramma umano della guerra, ma l’attenzione per le piccole storie, per gli sguardi e le parole dei singoli uomini, la loro esaltazione, getta una nuova luce sulla grande ruota della Storia.
La narrazione parte dai cinque sensi degli uomini divenuti soldati: la vista, con gli occhi che cercano di scorgere qualcosa o qualcuno nel buio per non lasciarsi prendere dalla paura; l’udito, dove lamenti, rumori di spari, di botti e di fischi svolgono il ruolo principale; l’olfatto, che porta alle narici l’odore di morte; il gusto, o meglio ciò che ne rimane poiché la bocca è secca, arida, il respiro è affannoso e vaga alla ricerca di sostentamento che però non può trovare; ed infine il tatto, per cercare i compagni, per riscoprirsi vivi, per sentire il calore del corpo a corpo, per risentire la vita in un corpo da cui sembra che stia sparendo. Il pubblico è rapito dalla magistrale gestualità di Mario Perrotta, limitata alla parte superiore del corpo, che accompagna il racconto armonizzata dalla musica, ricreando con le braccia ed il busto armi, saluti, rituali, morte. Bastano la parola e le movenze del corpo per calarsi all’interno di quel conflitto spersonalizzato e disumano; è passato un secolo, ma in realtà non è così lontano da noi, se ci commuoviamo, se piangiamo e se tutti in una sala di teatro applaudiamo con forza, battiamo le mani, in piedi, per omaggiare e ringraziare un grande attore della sua grandissima performance.
Mario Perrotta ci ha gentilmente concesso un’intervista telefonica, che riportiamo di seguito.
Quest’anno ricorre il centenario della Grande Guerra ed è giusto che ci siano eventi e rappresentazioni che ci riportino alla memoria quei giorni tragici. In questa sua rappresentazione, come anche in “Trincea” di Marco Baliani, ci si concentra sull’individuo, dimenticato come essere umano, considerato solo un fantoccio, un ingranaggio, una vittima sacrificale in nome della follia e della sete di potere. Il fatto che, in particolare nel suo spettacolo, ci sia una focalizzazione sull’essere umano in quanto “ignoto” (che nel suo spettacolo assume diverse sfaccettature, ma non le approfondiremo e non le sveleremo) e sull’individualismo, ha una motivazione ben precisa?
Credo che sia dovuto principalmente al fatto che chi fa teatro deve occuparsi, o comunque gli viene naturale occuparsi delle “piccole storie”; la grande Storia ci è stata raccontata dai libri, l’abbiamo studiata a scuola, è materia per storici e per analisti, mentre a noi non compete fare storia nel senso appunto di analisi dei macro-sistemi o delle macro-ragioni dell’evento, ma semmai ci preme raccontare quegli eventi con gli occhi dei singoli, di coloro che le hanno vissute in prima linea; magari le raccontiamo con una visione parziale, sicuramente faziosa, e quindi non scientificamente rigorosa, ma il teatro appunto non ha il compito di fare scienza, il teatro ha il compito di gettare nuovi sguardi su delle vicende che conosciamo già, altrimenti non avrebbe senso.
L’interesse per l’individuo e per il suo punto di vista, probabilmente, nasce da questo e si oppone a quella logica per cui invece l’individuo in guerra diventa parte del meccanismo, un ingranaggio, senza più un nome ed un cognome.
“Milite ignoto” è uno spettacolo molto impegnativo, per ciò che riguarda proprio l’impegno fisico e mentale dell’attore. Penso ad esempio, alla gestualità, la mimica, le movenze, la polifonia di linguaggi così diversi tra loro, con cambi così rapidi e veloci; quanto è grande il lavoro e lo studio che c’è alle spalle?
È grande, come dovrebbe essere sempre in teatro; prima di andare in scena dovremmo essere certi di aver fatto tutto ciò che era necessario fare per poter raccontare al meglio quello che si ha in mente, sperando che poi si rivelino cose interessanti da raccontare. Poi c’è il lavoro classico dell’attore che non bisogna mai perdere di vista, ed è un lavoro molto faticoso perché costruito in solitario, senza quel pubblico che in realtà costituisce l’altro partner nel gioco teatrale, che fino a quando non è presente tu fai da solo e non sai mai realmente che cosa stai facendo, non hai feedback; è la parte più faticosa ma anche quella che mette alla prova la tua creatività. Dopodiché c’è la seconda fase, quella del rapporto col pubblico, dove gli spettacoli crescono per forza di cose nelle prime 20/30 repliche e continuano a crescere perché appunto da quel momento in poi cominci ad avere un feedback. Lo sforzo, però, non è di più e non di meno degli spettacoli precedenti, se non quello linguistico, che comporta un costringersi a cambiare continuamente modo di pensare: non è solo fare un dialetto diverso, quello lo fanno anche i comici dello Zelig, si tratta di cambiare anche modo di pensare, perché un bolognese non pensa come un fiorentino, che non pensa come un leccese che non pensa come un torinese, ecc., quindi la difficoltà sta nel porsi in quel modus cogitandi proprio di ogni dialetto che adotti di volta in volta.
Rispetto agli altri miei spettacoli dove la lingua era sempre la stessa, sia che fosse il mio dialetto leccese o che si trattasse del dialetto reggiano di Antonio Ligabue (riferimento allo spettacolo “Un bès – Antonio Ligabue” dello stesso Perrotta – n.d.a.), comunque una lingua unica, dove il modo di pensare era sempre lo stesso, in questo caso sono costretto a saltare di continuo da un panorama all’altro, da un modo all’altro di pensare le cose.
Parlando appunto del pubblico, la scenografia che lei ha scelto è davvero minimale , ma in realtà è molto più coinvolgente di quello che appare e la rende molto vicino al pubblico; non a caso lei ieri sera ha affermato che il teatro si fa insieme.
Sì, ed è esattamente quello che stavo dicendo anche nella risposta precedente: il teatro è un gioco, e, come dico spesso (ma perché è la verità), è un gioco erotico che si fa in due , un gioco nel quale si scatenano delle energie vere, erotismo nel senso più alto della parola; e per fare erotismo bisogna essere in due, ed il teatro lo è, è un gioco a due dove il respiro del pubblico ti detta i tempi, e di sera in sera cambia perché influiscono componenti diverse tra loro: quello che è accaduto ieri sera in scena non accadrà mai più, non accadrà stasera, non accadrà domani, però accadranno altre cose, perché ho un altro partner davanti e questo rende il teatro un qualcosa di unico che non è né imitabile né replicabile e quindi finché si farà del teatro fatto bene la partita con gli mezzi di fruizione di spettacolo (che possono essere la televisione, il cinema, la musica riprodotta su cd,) possiamo vincere quella partita.
È stato uno spettacolo, quindi, impegnativo anche per il pubblico: la tematica era molto particolare, molto sentita è stato difficile (se non impossibile) non commuoversi.
Noto sempre più spesso questo aspetto difficile, impegnativo, sembra abbia quasi dello scabroso ed invece commuoversi fa parte della natura più antica dell’essere umano e il fatto che oggi quasi ci se ne vergogni è un segno dei tempi. Molta gente mi dice “Mi sono quasi commosso” ed io riflettendo dico “Peccato che non si è commosso totalmente”; non c’è niente di male, anzi c’è solo del bene a lasciar lavorare le proprie emozioni.
Il fatto di viverla come una cosa che ti coinvolge troppo è un serio problema, un problema sociologico.
Ha incontrato delle scuole durante la sua tournée?
Sì, le ho incontrate.
E che riscontro ha avuto da parte degli studenti, da dei giovani che hanno la stessa età dei soldati di cui lei narra, ma che sono, fortunatamente per loro, lontani, lontanissimi da quella realtà?
Dipende dalla scuola: se gli insegnanti li avevano preparati, allora la reazione è stata molto forte perché non potevano immaginare appunto che dei loro coetanei potessero aver vissuto quelle vicende; se la scuola invece non li aveva preparati, come a volte accade, allora il risultato è drammatico, la reazione è pari zero, nel senso che per loro era un giorno di vacanza dove venire a fare casino in teatro, quindi dipende come per tutte le cose non è che c’è un’attenzione dovuta al fatto di appartenere ad una generazione per cui quella cosa li tocca, c’è un esser preparati o meno a stare a teatro, che è una modalità molto particolare di stare, si è in tanti, ma si comunica in silenzio, se questa cosa non viene preparata da chi li porta a scuola è un disastro.