“Ciò che conduce l’uomo a osare e a soffrire per edificare società libere dal bisogno e dalla paura è la sua visione di un mondo fatto per un’umanità razionale e civilizzata. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere”. Queste parole provengono da una donna eccezionale, Aung San Suu Kyi, che ha vissuto una vita eccezionale in nome della democrazia, del perseguimento della verità, scevra da ogni paura, da ogni pregiudizio, con lo scopo di riconsegnare la libertà al suo popolo, quello birmano, oppresso da decenni di dittatura militare.
Ermanna Montanari e Marco Martinelli del Teatro delle Albe hanno edificato su questa disarmante figura un bellissimo spettacolo – Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna – partendo da un quesito: “E distante la Birmania?” Evidentemente no. E non si parla solo di una distanza geografica. Raccontare questa storia significa anche riflettere sul nostro presente, significa ricordare che il cambiamento è possibile, con coraggio, perseveranza e determinazione. Concetti come democrazia, bene comune, verità e giustizia possono non essere solo parole usurate, utopie del pensiero ma avere un senso proprio se operate nel quotidiano con il sacrificio, la dedizione, la devozione di persone destinate a cambiare il corso della storia.
Lo spettacolo indaga, in 18 capitoli, la vita privata e quella politica di Aung San Suu Kyi, interpretata dall’incantevole Emma Montanari che, con la sua figura esile e minuta, ricorda anche fisicamente “La Signora”, come viene chiamata dal suo popolo. Il primo trauma di questa eroina contemporanea è avvenuto all’età di due anni quando il padre, uno dei principali esponenti politici della Birmania, fu ucciso in un attentato dai suoi avversari politici.
Nel 1988 Suu torna nel suo paese dall’Inghilterra, dove ormai viveva da anni con il marito inglese e i suoi due figli, per accudire la madre in fin di vita. Al ritorno in patria non può esimersi dall’entrare in politica per liberare il suo popolo dalla dittatura. Fonda così la Lega Nazionale per la Democrazia e inizia il calvario politico che la terra prigioniera nella sua dimora per ventun anni della sua vita e la porterà a prendere decisioni difficili anche nella sua vita privata.
La scena è scarna, allestita con semplici arredi, con i quali si vuole ricostruire la dimora sul lago dove Aung San Suu Kji sarà costretta a trascorrere, forzatamente, tanto tempo della sua vita. Sul fondo compaiono foto e filmati di repertorio che fanno da filo conduttore alla storia narrata. A sinistra, sulla ribalta, un grande drappo rosso verticale e sul palco una pila di libri dove l’eroina troverà spesso rifugio: vi si accovaccerà come una bimba impaurita, saranno gli amici delle sue riflessioni e della sua solitudine e un valido sostegno quando dovrà parlare al suo popolo, per portare il suo messaggio di democrazia alla folla di persone che appoggeranno le sue idee. E così, questa tenace donna, armata di pacatezza, civiltà, cultura e dialogo, affronta gli oppressori del governo, accetta e subisce tutti i soprusi che le vengono imposti, attraverso una segregazione forzata per almeno un ventennio, fino al 2010, anno della sua liberazione e di una nuova fase di democratizzazione per il suo paese.
Costruita su un impianto scenico di tipo brechtiano – scelta esplicitata dalla presenza dello stesso Brecht in scena a dire in tedesco i celebri versi ripetuti dalla donna: “Le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle, davanti a noi stanno le fatiche delle pianure” – la pièce si incentra sulla recitazione piena di grazia e di contegno di Ermanna Montanari che copia ma non imita, proprio come fanno i grandi artisti, l’eroina attraverso modulazioni cadenzate della voce e gesti ondulati che, solo in alcuni frangenti, diventano più scattosi e spezzati per sottolineare la risolutezza indignata del suo personaggio.
Notevole anche la rappresentazione degli altri attori – Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu con l’incursione scenica di Fagio, tecnico del suono delle Albe – che integrano il racconto mettendo in scena alcuni personaggi chiave: i generali, ad esempio, rendendoli riconoscibili attraverso l’esagerazione grottesca che identifica questi individui offuscati dalla loro smania di potere; il coro che ci conduce nella vita più intima e dolorosa della donna, come nel momento in cui le viene data la notizia della morte del marito; i cabarettisti che raccontano quel venerdì nero del 30 maggio 2003 quando fu attentata la vita de “La Signora”; oppure trasformandosi in NAT spiriti degli alberi tanto temuti dalla piccola Suu che diverranno invece, nella sua condizione di isolamento forzato, suoi amici e interlocutori.
Molto suggestive anche le musiche, composte da Luigi Ceccarelli, dolci, delicate, dal sapore orientale ma che esplodono in sonorità techno dure a aggressive quando annunciano l’irrompere dei generali, con la loro violenza e brutalità. Anche le luci sono perfettamente funzionali al racconto e si fanno cupe, cavernose quando s’indaga la psiche della donna che deve affrontare i suoi fantasmi e le sue paure da sola; coni di luce accecanti sono invece gettati sui generali e sulle loro terribili e stolte azioni, mentre una luce calda e penetrante ci conduce dentro le sofferenze più intime della donna.
Una prigionia, quella di Aung San Suu Kyi, certamente fisica ma non spirituale: “ se provassi odio e rancore, allora sì che sarei prigioniera” afferma l’eroina della birmania che si è occupata di politica per impedire che la politica si occupasse di lei e del suo popolo, che per le sue azioni ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 1991 e che, l’11 novembre 2015, ha vinto le prime elezioni libere del suo paese, dopo 25 anni, con il 70% dei voti. Concludo, come ho iniziato, con le sue parole, così dense, così umane, così cogenti: “L’autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo”.