Quando Maya uscì in terrazza per osservare i primi raggi di sole, la campagna d’intorno conservava ancora l’odore della notte. Aveva indosso il pigiama di cotone con i calzoni corti ed il fresco le solleticava le dita dei piedi, salendole fin sopra le cosce. Si strinse nelle spalle e portò alla bocca la tazza di tè fumante. Il giorno era in divenire davanti ai suoi occhi color nocciola e Maya l’osservava in silenzio, quando Ada pose fine a quella quiete. Quella vecchia gallina mugellese si era fiondata giù da un albero ed aveva iniziato a scorrazzare nel prato intorno a casa. Capì che era giunto il momento di mettersi a lavoro. La cosa non le sembrò poi così male e le parve strano, perché fino a pochi mesi prima andare a lavoro aveva significato traffico, smog ed un bel po’ di spintoni. Adesso invece non doveva fare altro che scendere una rampa di scale. Così dopo aver indossato una felpa ed un paio di jeans, raggiunse il pian terreno. Trovò ad attenderla i grossi stivali di gomma. Li indossò barcollando, mentre intanto procedeva in direzione della cucina. Dette un morso ad una mela, ma il suo viso angelico si contrasse in una smorfia. Così la ripose sul tavolo ed uscì di casa.
Pedro le corse incontro, con la lingua di fuori e la bocca spalancata come in un sorriso. “Buongiorno mostriciattolo”, disse accarezzandogli il muso. Si concesse qualche coccola, poi riprese il suo cammino. Pedro le andò dietro fino a quando non vide Ada e cambiò improvvisamente direzione. Inseguita dal cane, la gallina prese a chiocciare e a sbattere le ali impaurita. L’inseguimento andò avanti fino a quando con un salto più deciso degli altri Ada raggiunse il ramo di un albero e si mise al sicuro. Pedro prese ad abbaiare, girando intorno al tronco. Quel vecchiarello non avrebbe fatto del male ad una mosca, figurarsi ad Ada. Così Maya lasciò che si divertissero e raggiunse il punto più alto della collina. Là la vegetazione si faceva più fitta ed il sole stentava a filtrare fino a metà mattina. Tirò su il cappuccio della felpa. Qualche ricciolo rimase fuori, dando a quella tenuta da lavoro un tocco di femminilità.
La vista delle sue arnie la emozionava ogni mattina. Le aveva costruite assieme a Gabriel, una ad una. Ci erano voluti dei giorni, ma alla fine il risultato aveva superato le aspettative. Così adesso il bosco intorno a casa era impreziosito di piccole casette dai colori sgargianti. Le api erano già a lavoro. Maya le osservava soddisfatta. Quelle piccoline le avevano regalato una prima raccolta oltre ogni aspettativa. Da maggio avevano lavorato senza sosta, così come lei e Gabriel. Ma ora la fine della stagione era vicina. Era giunto l’ultimo periodo, quello dell’edera. Poi tutto sarebbe terminato, almeno per il momento. Al pensiero di ciò Maya si sentì un po’ triste, perché a lei lavorare con le api piaceva eccome. Ecco perché in quella grigia mattina di novembre di due anni prima aveva deciso di lasciare il suo lavoro di manager a Milano per cercare una casa in campagna. Perché sebbene tutto abbia un prezzo, la libertà, quella vera, d’animo, non si può barattare con nient’altro, men che mai con la propria natura. E così le arnie, il bosco, Pedro, Ada e tutto il resto, erano stati un modo per tornare in contatto con se stessa.
Perlustrò il bosco controllando tutte le arnie. Passando davanti all’orto si accorse che lo spaventapasseri stava perdendo la giacca. La sistemò con cura, aggiustandogli anche il cappello. Quando fece ritorno a casa erano appena le 9. Si affacciò in cantina. Accanto ai grandi fusti di miele, vi erano dei vasetti già pronti. Ne prese uno e salì in casa. Gabriel aveva preparato il caffè. Maya, ancora sporca di fango, si buttò tra le sue braccia cogliendolo di sorpresa, tanto che lui fece appena in tempo a posare la moka sul tavolo, evitando di rovesciare tutto a terra. “Arrivi giusto in tempo”, le disse. Poi la baciò. “Buongiorno”. “Buongiorno”, rispose lei. “Questo è per te”, aggiunse mostrando il barattolo con una certa soddisfazione. Lo guardò intensamente, con occhi da bambina. Capitava di rado quando vivevano in città. Lui le sorrise, poi mise del pane ad abbrustolire e versò il caffè nelle tazze di ceramica a pois blu. Il sole illuminava la stanza ed un raggio s’infrangeva sul barattolo facendolo brillare come fosse oro. Quando tutto fu pronto i due si sedettero al tavolo. Con un gesto sicuro Maya aprì il barattolo. Nel silenzio della stanza le parve di udire il suono più bello del mondo. Poi avvicinò il naso e s’inebriò di dolcezza. Prese un cucchiaino di miele, lo avvicinò alle labbra di Gabriel ed attese il suo sorriso, che arrivò puntuale come ogni giorno. Tornò poi a tuffare il cucchiaino nel miele, ma questa volta lo avvicinò alla sua bocca chiudendo gli occhi. La sua libertà aveva davvero un sapore squisito. Quando li riaprì, Gabriel la guardava ancora. “Come sei bella”, disse. Lei avrebbe voluto dirgli altrettanto, ma non riuscì a pronunciare nessuna parola. Prese a girare il caffè, pensando alla dolcezza a cui il miele e Gabriel l’avevano abituata in quei mesi. Non seppe dirsi se la meritasse o meno, ma capì in quell’istante che con lui accanto la sua libertà aveva assunto un valore ancor più profondo, divenendo felicità. Così si alzò, raggiunse Gabriel dall’altra parte del tavolo e si sedette sulle sue gambe. Gli dette un bacio e lo strinse a sé con forza, come a divenire un tutt’uno. Restarono così a lungo, l’uno in ascolto dell’altro, senza bisogno di parole.