da I Giganti della Montagna di Luigi Pirandello con la riscrittura dell’incompiuto atto III
drammaturgia di Valentina Diana
regia di Giuseppe Semeraro
con Leone Marco Bartolo, Dario Cadei, Carla Guido, Otto Marco Mercante, Cristina Mileti, Giuseppe Semeraro
Prodotto da Teatro Principio Attivo
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Una compagnia di attori scende dai gradini lungo la platea del Nest, sollevando con un piccolo corteo l’Ilse pirandelliana, poi circonda il pubblico con un “cordone sanitario”, vale a dire con un nastro segnaletico che perimetra tutta quanta la sala. “Abbiamo occupato il teatro” esordisce uno degli attori, sciorinando una serie di precauzioni che gli astanti, loro ostaggi, devono rispettare per tutta la durata dello spettacolo.
“Opera nazionale combattenti”, eteronimo di Principio Teatro Attivo, sorta di alter-ego dei suoi componenti, è la stramba “legione teatrale” che oppone il così detto “teatro vecchio” al “teatro giovane”, giunta a noi per mettere in scena I Giganti della Montagna atto III, dal punto in cui l’opera ultima del drammaturgo siciliano rimane incompiuta, riscrivendone così l’ultimo atto. All’inizio dello spettacolo un nastro registrato riproduce le indicazioni che Pirandello morente detta al figlio Stefano Landi sull’epilogo del suo ultimo dramma; da qui si snoda il tentativo di riscrittura dell’atto III da parte di Valentina Diana.
Un fatiscente anacronismo caratterizza l’assito praticamente svuotato, nudo se non con tavole e cordami affastellati sul fondo, che funge da retropalco dove gli attori (i personaggi del dramma) accompagnati da Mago Cotrone, depositano parrucche e bauli, tracce materiali dei teatranti di un tempo allo sbaraglio fra i teatri e teatrucoli di paesi e città. Uno specchio, un appendiabiti, qualche sedia e parrucca sono i pochi elementi sovrastati da un altro sipario sollevato verso il fondo, e poi vino, panini, una radio ad antenna per sentire la partita del Bari; un rimando, senza dubbio, al teatro fatto a fatica, quello ramingo di un tempo colmo di sacrifici morali e materiali, ricostruzione psicosomatica della stessa compagnia di Ilse che l’Opera mazionale combattenti non solo interpreta, ma ricrea riconoscendosi a pieno.
Gli attori “combattenti” si presentano al pubblico come nostalgici di un teatro di una volta non più praticabile – trovando per questo, la loro naturale collocazione nella compagnia pirandelliana in procinto di recitare “La favola del figlio cambiato” di un autore morto per amore dell’attrice, alter-ego dello stesso Pirandello – adottando ironicamente e provocatoriamente un nome che richiama vecchie nomenclature fasciste (si presentano tra l’altro con una fascia al braccio), ma il loro “atto di forza”, quello di occupare una sala teatrale, è un ironico surrogato, un tentativo d’imposizione artistica nel loro essere disarmati e così disperatamente nostalgici perché al corrente di un’identica e cruda verità che attanaglia le ultime creature pirandelliane: la consapevolezza che nessuno crede più alla finzione e quindi al teatro. La libera riscrittura dell’atto III si basa su tale consapevolezza per la quale è messo in gioco anche lo stesso pubblico. Al contrario della permanenza nella villa del mago Cotrone, luogo in cui l’immaginazione crea vita e contemporaneamente se ne abdica in nome dell’arte, al cospetto degli umani i teatranti sono costretti a fare i conti con il non riconoscimento della poesia e di conseguenza con la loro inutilità. L’originalità dello spettacolo di Semeraro sta nel creare delle implicazioni metateatrali che non riguardano soltanto la scrittura dell’opera di riferimento, ma che reggono un gioco fortemente speculare basato sull’equivalenza tra la compagnia che prende il nome Opera Nazionale Combattenti e quella degli attori di cui Pirandello narra le vicissitudini. Per questo l’assito ha un assetto bifrontale, essendo al contempo palco per una platea vera (noi che sediamo nel teatro Nest), quindi della compagnia Opera Nazionale Combattenti, e retropalco rispetto ad un’altra immaginaria in cui un secondo pubblico “che mangia noccioline” siede e scalpita in uno spazio che essendo “finto” è illimitato ed al quale noi “ostaggi” siamo costretti a far finta di credere. L’essere incitati a credere a qualcosa che nella realtà non esiste – è questo del resto, il teatro! – coinvolge lo spettatore reale in un processo inverso: il disvelamento della finzione e di tutto il meccanismo che essa implica, mostrando non solo oggetti di scena come tali ed inserendo battute come “sto facendo memoria” o riscaldamenti vocali, ma provocandolo attraverso il personaggio-attore Leone Marco Bartolo, tecnico e musicista, punto di raccordo fra la finzione primaria e quella secondaria.
Se la platea inesistente è quella che Pirandello immaginò come i carnefici dell’attrice Ilse, gli esseri umani che esattamente come i laboriosi Giganti della Montagna hanno dimenticato le attività dello spirito, quella reale, cioè noi, diviene il complice necessario affinché questa compagnia così anacronistica possa raccontarsi e al contempo raccontare facendo del gioco della finzione stessa uno sguardo ed una metodologia assolutamente contemporanei. La compagnia pugliese reinventa un epilogo tragicomico per la parabola pirandelliana, tradendo ogni coordinata spazio-temporale, e crea una continua osmosi fra platea, palcoscenico e retropalco la cui sequenza nella finzione è quasi invertita, ripristinando la semplice e limpida essenzialità della relazione pubblico-attore.
Una sovrapposizione di segni e di ruoli di continuo rimescolati che ammicca, quasi malinconicamente, ad un teatro lontano nel tempo, nei costumi, nelle scene, nella recitazione, incuneati però entro una drammaturgia permeata da una sensibilità e riflessione più che odierna.
La recita pirandelliana rimanda all’esigenza di collocare l’artigianato del teatro al di là di un asse cronologico, sottolineando, attraverso questo strambo gruppo di artisti disadattati, la relativa estraneità al tempo ordinario che scorre, e ponendolo perciò in un poetico anacronismo. Quasi autistica è la sua arte, permeata dalle sue miserie, alla ricerca di una comprensione reciproca con chi occupa i posti a sedere in una platea. L’atto di forza, il filo spinato, il cordone sanitario sono solo simboli rovesciati della fragilità della finzione scenica che s’infrange attraverso il sacrificio di Ilse su di una platea astratta o che svanisce appena lo spettacolo termina. Sono i buffi strumenti di una pacifica, disarmata e disperata battaglia a difesa dell’arte d’illudere.