di Harold Pinter
regia Tonino di Ronza Simona Schiavone
con Agostino Chiummariello Marcello Romolo
disegno luci Cesare Accetta
ideazione scene e costumi Emanuela Ferrara, Simona Guarino, Angelica Simeone, Lucio Valerio
realizzazione scene Carmine De Mizio, Rachele di Maro, Mario Di Nardo, Vincenzo Fiorillo, Pasquale Mascoli, Michela Parascandolo, Simone, Mattia Pisani, Marzia Solimene, Rossella Carella
scenotecnica Salvatore Fiscimayer
costumi Giampaolo Parmiggiano Lorenzo Zambrano
audio luci Serenella Coscione
responsabile tecnico Ugo De Martino
Prodotto da Accademia delle Belle Arti di Napoli in collaborazione con il Teatro coop./produzioni Associazione Culturale Aula 105
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In collaborazione con il teatro Galleria Toledo, l’Accademia delle Belle Arti di Napoli mette in scena per la regia di Tonino di Ronza e Simona Schiavone, “Il calapranzi” testo di Harold Pinter scritto alla fine degli anni ’50.
In questo allestimento lo sguardo ricade sulla curata scenotecnica e sulla scenografia che divengono scatola preziosa entro la quale porre filologicamente in azione il testo pinteriano. Luci naturali mettono in evidenza la predominanza del colore bianco degli elementi di scena, un confuso mobilio e i due letti posti di sghembo in mezzo ai quali troneggia una colonna “murata” che si staglia davanti alla parete di fondo nera e a specchi. Il testo originale ci parla di una basement room, vale a dire un seminterrato, con due vani a noi non visibili: il gabinetto ed un atrio con porta. Agostino Chiummariello (Ben) e Marcello Romolo (Gus) si trovano ad agire, dunque, in questo ambiente il cui senso di claustrofobia è in parte diradato dalla predominanza del colore albino, ma il telo posto come quarta parete e. specialmente, una spiccata altezza in prospettiva delle pareti della scena lasciano che la sensazione di oppressione s’insinui lentamente nello spettatore di pari passo con la progressiva violenza che emerge dal dialogo. Un particolare, quello dell’altezza, non certo di secondo piano se si considera la forte simbologia insita in “Il Calapranzi” in cui è proprio la verticalità la preminente metafora che Pinter vuol suggerire. Ben e Gus, forse due sicari di basso rango, attendono un “nuovo lavoro” che dovrà avvenire nel momento in cui un certo signor Wilson li autorizzerà a procedere. Di quest’ultimo non conosciamo assolutamente nulla, se non che è citato dai due più volte senza che sappiano cosa realmente aspettarsi e perché poi, attendere proprio lì. Appare inevitabile accostare la vicenda di Pinter con il “Waiting for Godot” di Beckett a differenza del quale però possiamo cogliere alcuni dettagli ancora più infidi, e se vogliamo ulteriormente allarmanti. Difatti, mentre Estragone e Vladimiro vagano entro una cognizione del tempo e dello spazio dilatati all’infinito, privi di un reale punto di riferimento, Ben e Gus sono posti invece in una coordinata geografica ben precisa: Birmingham, ed in più sanno che se oggi è venerdì, allora domani è sabato. In più sono certi di esistere per svolgere una funzione, un lavoro e ciò li condurrebbe naturalmente ad un’azione; Ben legge un giornale e ne commenta le notizie, simbolo di una realtà esterna ad ogni modo preesistente. L’impressione di fondo è che Pinter non voglia restare solo su un piano prettamente esistenziale (come in Beckett) ma abbia la volontà di rendere metaforicamente una condizione sociale espressa attraverso due principali rapporti di subalternità. Il primo è fuor da ogni dubbio la labile relazione con Wilson, il probabile interlocutore dell’interfono che ad un tratto compare accanto al calapranzi e attraverso il quale i due non fanno altro che mandare su del cibo finito a male, loro uniche vettovaglie, ulteriore segno di un legame di un’inoppugnabile sottomissione. Wilson non è soltanto riferimento ad uno specifico individuo, è forse – lo supponiamo – ben più di questo; “hanno un reparto per ogni settore” dice Ben ad un tratto citando la fantomatica “organizzazione” per la quale sono sicuri di lavorare, inquietante perché invisibile, lasciata lì come ipotesi eppure tanto reale e certa da attuare un perverso meccanismo di predominio, inquietante simbolo della realtà post-moderna.
La seconda relazione gerarchica si staglia nel lungo dialogo fra Ben e Gus in cui ad ogni domanda del secondo arriva puntualmente una violenta reazione del primo che causa la totale irrisolutezza della comunicazione, divenendo assurda e allucinata, fratta da ampi e pesanti silenzi e da frequenti reiterazioni o rimandi che cadono nel vuoto, da guizzi semantici che fanno dei due protagonisti l’uno lo specchio distorto dell’altro. Tutte le parole assumono un valore di circostanza, sono dunque periferiche e fuorvianti rispetto ai dubbi ed alle speranze che entrambi covano all’interno delle proprie individualità. Ma è proprio dalle parole e dal silenzio che parte la rincorsa all’azione conclusiva, anticipata dalla sottesa aggressività che, a mo’ di progressivo rigonfiamento, emerge brutalmente mediante conati simbolici e non. E ancora più spietata ci appare la scrittura di Pinter quando qualche istante prima del sipario – che lascia intendere la finale e fatale azione – ritornano a ripetersi frasi e microazioni iniziali che vanificano ogni tentativo di ribellione e conoscenza e che decretano l’asfissiante inoppugnabilità verso intangibili e tangibili relazioni di forza e l’inesorabilità dell’epilogo.
La regia di Tonino di Ronza e di Simona Schiavone ci propone una messa in scena raffinata, assolutamente curata nei minimi dettagli che ne costituiscono un particolare involucro. Pur non rimaneggiando il testo che è eseguito filologicamente dai due interpreti, la pièce inizia con una sequenza di fotogrammi cinematografici proiettati sullo schermo divisorio fra la platea ed il mero interno della scena. Tale sequenza, forse troppo lunga, s’ispira a vecchie pellicole noir in cui i personaggi pinteriani sono letteralmente inscatolati, messi nei panni dei tipici protagonisti di quei film: sicari in impermeabile, in giacca, camicia e pantalone, con revolver, elementi che però offuscano la possibilità di una lettura più profonda del testo in nome di una regia che compie un’operazione nel complesso a livello estetico, innestando nello spazio teatrale uno stile ed una visività da vecchio cinema d’autore.