Questa commedia di Pirandello, non molto nota, affronta una tematica di spiazzante attualità.
Rappresentata per la prima volta a Torino nel 1929, è stata tratta dall’autore da una delle “Novelle per un anno”.
L’ambientazione nel Ventennio fascista è sottolineata fin dall’inizio dello spettacolo dalle note di “Giovinezza” che fanno da sottofondo alla notte insonne dei due amici Carlino e Tito. Colleghi al Ministero dopo essere stati compagni di studi a Padova, i due convivono in una camera ammobiliata, non potendo con il magro stipendio formare e mantenere una famiglia. Cosa fare per lenire la solitudine nella capitale? Basta continuare a condividere la ragazza che aveva allietato la loro gioventù nella città d’origine. Melina accetta di buon grado per riscattare la triste condizione di prostituta e ridurre i rischi di una vita ai margini. Per i giovanotti, il licenzioso ménage à trois fa ridurre le spese ed è collante all’amicizia, affrancandoli da responsabilità e gelosie. Nel piccolo appartamento fuori porta che hanno affittato per Melina, lei li riceve alternativamente.
Trascorsi serenamente due anni, ecco l’imponderabile: la ragazza è incinta e non sa chi sia il padre. La natura si è presa la rivincita sui sofismi opportunistici. I due perdono il sonno nel vano tentativo di risolvere il problema. Melina rivela un insospettato sentimento materno, mentre il dubbio sull’attribuzione della paternità spezza la solidarietà dei due amici: va bene infrangere le regole sociali, ma la paternità mette in ballo l’appartenenza e l’onore, non può essere condivisa!
Essendogli negata la gelosia non essendoci tradimento, li assale un rancore sordo verso il rivale e il corpo della donna che ha tradito entrambi prendendosi più del dovuto. Quando il bambino nascerà, non potendo essere di uno, non sarà di nessuno e verrà dato in adozione a una famiglia che ha perso il proprio, è il salomonico suggerimento del coinquilino avvocato.
La ragazza, abbandonata a se stessa, consuma la sua linfa vitale nell’attesa del bambino; con le residue energie, dopo il parto scaglia l’ultima invettiva contro i suoi amanti. Poi solo pietà e silenzio.
I temi messi a fuoco nella commedia hanno una minore connotazione psicoanalitica rispetto a quasi tutta la produzione pirandelliana, sono mali che affliggono anche la società odierna: il lavoro malpagato che non consente autonomia, la coabitazione, la prostituzione, il perbenismo gretto, la maternità accidentale, la paternità rifiutata, l’aridità sentimentale, il mito del maschio, la mercificazione della donna.
La regia di Gianluigi Fogacci, interprete anche dell’avvocato Merletti, mantiene il linguaggio originale, conferendo al rapporto simbiotico tra Carlino e Tito un’aura di morbosità, quasi che la duplice relazione con la ragazza rappresenti l’estensione sessuale del loro personale rapporto. Simone Baldassari e Roberto Laureri, rispettivamente Carlino e Tito, sono adeguatamente rappresentativi del maschio italiano di inizio secolo libertino e tartufesco. Valentina Bartolo, dapprima remissiva, sfodera una notevole grinta nella scena madre conclusiva, Alessandra Puliafico è la puritana proprietaria della pensione, Veronica Loforese è la sensuale dottoressa.
Essenziali le scene di Fabiana Di Marco, come richiede il minimale ambiente del Teatro India, eccellente esempio di recupero dell’insediamento industriale dell’ex fabbrica Mira Lanza che fronteggia il Gazometro, icona industriale romana del Novecento.
Lo spettacolo rientra nella proposta di un trittico del tragediografo di Girgenti, insieme a “Berretto a sonagli” diretto e interpretato da Valter Malosti e “Giganti della montagna” secondo Roberto Latini, nella sezione Classici? Mai così moderni della presente stagione teatrale.