riscrittura di Ruggero Cappuccio ispirato a William Shakespeare
regia di Claudio Di Palma
con Isa Danieli, Lello Arena, Fabrizio Vona e con Renato De Simone, Enzo Mirone, Rossella Pugliese, Antonella Romano
scene Luigi Ferrigno
musiche Massimiliano Sacchi
costumi Annamaria Morelli
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro in collaborazione con Officine Culturali della Regione Lazio Bon Voyage, Festival Teatrale di Borgio Verezzi e Civit’Arte 2015
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La riscrittura firmata da Ruggero Cappuccio del “Sogno di una notte di mezza estate” e messa in scena da Claudio Di Palma, di sicuro ci offre dei buoni spunti di riflessione sulla natura di opera eternamente aperta che la commedia di Shakespeare non smette mai d’essere.
Pare superfluo sottolineare la molteplicità dei livelli d’interpretazione che s’interconnettono nella storia e nella relativa drammaturgia e dalla quale probabilmente ai nostri occhi, intrisi di sensibilità post-novecentesca con la quale ci approcciamo all’opera, balzano molti più elementi.
Nell’allestimento prodotto da Ente Teatro Cronaca/Vesuvio Napoli Titania ed Oberon, encomiabili Isa Danieli e Lello Arena, non si fronteggiano l’un l’altro con annessi cortei di fate e folletti, ma condividono lo stesso talamo in un immaginario e fatiscente palazzo secentesco confinato – chissà dove – ai margini della city, di una Napoli lontana. Come intrappolati nella nostrana tradizione fiabesca, essi appaiono misteriosa estensione dei cunti di Basile di cui Cappuccio riprende la preziosa lingua ed il vezzo di citare la reale toponomastica nell’ambientazione immaginaria e fantasiosa delle sue vicende.
Sono essi creature la cui esistenza è in realtà “una dieresi eterna” e la relativa lingua non altro che un orgoglioso “buffonesimo declamatorio” che rimpiazza con il dialetto barocco, lo stesso barocco di Shakespeare. L’accostamento di ambedue le lingue, sostanzialmente coeve, è la chiave formale dello spettacolo di Cappuccio/Di Palma.
Il bosco ove i protagonisti smarriscono e al contempo acquistano se stessi diventa proiezione mentale, appunto dimensione del sogno che Titania fa di Ermia, Lisandro, Demetrio ed Elena. I quattro amanti di cui Shakespeare narra gli amori sono in realtà quattro burattini nei cui corpi s’infila la mano per dar loro vita nel cuore della notte; essi vivificano nella doppia dimensione onirica (nella stessa di Titania e di Oberon e inoltre, in quella dei loro sogni), marionette nelle mani dei quattro elfi che prendono il posto degli originari artigiani intenti a mettere su la recita di “Piramo e Tisbe”; bagattelle, opera dei pupi i cui fantocci fuggono dalla cristalliera e prendono vita. Troviamo oltremodo interessante quest’intuizione di “ridurre” i quattro protagonisti a burattini, forte del fatto che fra le vicissitudini dei giovani sudditi di Teseo ed Ippolita e quelle di Titania ed Oberon non sussista nessun netto confine che li renda chi sogno e chi realtà. Del resto, è proprio la finzione, così sinceramente palesata anche nell’opera originaria, – come ha suggerito anche Melchiori – diviene pietra di paragone della realtà resa a sua volta distorta e, quindi, è il teatro a riaffermare, attraverso il suo maldestro smascheramento, la labilità delle storie del Sogno e del nostro essere. In questo senso, pare opportuno l’epilogo dello spettacolo che vuole i personaggi in proscenio rivolti al pubblico laddove i due invisibili sovrani, uniti già in matrimonio, interrompono la sprovveduta recita preparata in loro onore, decretando concluso l’incanto che avvolge intatti la Regina delle fate ed il Re degli elfi. Insomma, la chiusura del sipario coincide con il termine del Sogno che reca entro di sé ulteriori sogni e che trapuntano un’indistricabile metaforica ragnatela che protegge, con la preziosa “bava” della lingua barocca, il mondo di Titania ed Oberon contro lo strapotere “anglofono” che simboleggia la città moderna, forse il mondo contemporaneo, volontariamente orfano di tradizione e che man mano divora l’ostinato microcosmo di queste creature. Queste ultime, coniugi, quali proiezioni di atemporali spiriti incuneati fra i secoli della poesia e dell’arte partenopei, detengono il pascoliano “potere dei fanciulli”, la capacità dei sublimi poeti – parafrasi dei famosi versi messi in bocca al Teseo del V atto – e la loro esistenza s’interseca con quella del Pulcinella, dei Pupi. Sono essi come prelevati dall’eufuismo scespiriano e ripiantati fra vetrate impolverate secentesche dalle quali Puck (Fabrizio Vona), maschera buffonesca che ricorda vagamente i commediografi dell’Arte, spunta all’improvviso, dispettoso folletto che scompiglia col maldestro uso de “la viola del pensiero” i cuori degli amanti; è grazie a lui che Oberon, mettendosi in capo la testa d’asino, riconquista la sua Titania in una notte d’estate mentre la compagnia dell’Elfo incarna i quattro amanti – assunti a grandezza umana, traslazione nel sogno dell’inconscia smisuratezza dei nostri pensieri e capricci – per terminarne la narrazione.
Ruggero Cappuccio e Claudio Di Palma insistono quindi sulla vocazione prettamente metateatrale dell’opera e con essa se ne distaccano totalmente; lo dimostra la caratterizzazione dei quattro elfi – al posto degli originari artigiani ateniesi – che preparano sotto la guida di Oberon e Titania la recita di “Piramo e Tisbe” e che durante le prove sono capaci di dar vita ad una vera e propria assemblea sindacale per i diritti sulle singole parti usando una lingua più bassa, come Shakespeare aveva del resto fatto, afferente al popolare dialettale.
Insomma, come s’intuisce dal metaforico parto di Titania dal cui grembo spunta un Pulcinella ligneo, “Sogno di una notte di mezz’estate” di Cappuccio non è una trasposizione dell’opera originaria, ma una parallela onirica narrazione di atavica poeticità insita nella nostra tradizione che solo l’illusione teatrale è in grado di comunicare.
Il Sogno di Cappuccio si traduce in uno spazio scenico, al contempo vuoto e colmo di vetri e luci riflesse, nel quale si situa la simultanea coesistenza, o corrispondenza, di due codici linguistici paralleli alla ricerca dei medesimi simboli universali che resta il valore semiotico della pratica teatrale.
Probabilmente siamo riusciti – di questo lavoro – a coglierne esclusivamente gli aspetti più estetici e formali, apprezzandone “l’accurata fatiscenza” della scena di Luigi Ferrigno, ma è forse proprio questo il livello che vuol essere sotteso, nella misura in cui un certo barocco “anglofono” viene fagocitato dal barocco partenopeo per ricondurci, perciò, ad un teatro che sa di antico – talvolta di stantio – nostalgico ritorno a liricità e fascinazioni polifoniche; una vecchia “maniera” che guardiamo volgere in scena come di solito guardiamo ad un vecchio carillon dalla sbiadita vitalità.