Un tuffo in uno spaccato del primo Novecento siciliano, quando si cercava fortuna nei paesi d’oltremare, con il rimpianto e la nostalgia nel cuore per una terra nella quale allignavano le radici.
La barberìa di Salvo, nel messinese, è luogo di incontro e scambio di racconti, aneddoti, ricordi. Sulla sua sedia i clienti vengono coccolati e serviti con tutte le attenzioni: panno caldo sul viso per dilatare i pori, insaponatura, rasatura, una spazzolata di talco profumato e, a fine anno, l’omaggio di un calendarietto profumato legato da un nastrino con nappa, da tenere nel taschino del doppiopetto della domenica per eccitare erotiche fantasie coi minuscoli disegni di desiderabili donnine.
Apre il baule dei ricordi, Salvo, e non si stanca di raccontare amorevolmente, della sua vita e, prima ancora, di quella dei genitori, il padre figlio di un bracciante che non poteva aspirare alla figlia di un mezzadro e i due ragazzi saranno costretti a ricorrere all’unica possibilità allora consentita, ‘a fuitina con successivo matrimonio riparatore. La notte di nozze, finiti i festeggiamenti, il letto e la casa sono scossi da violenti sobbalzi: il giovane crede sia il suo ardore di innamorato, purtroppo, invece, è il terremoto del 28 dicembre 1908 che arrecherà distruzione e desolazione. Persi i genitori e le scarse proprietà, la coppia emigra, sbarcando a New York.
Ma anche l’America a volte è ingrata e l’unica luce in una vita di stenti per i due sposi è l’arrivo di Salvo, che giovinetto, va a bottega da un barbiere, attratto dalla molteplicità di personaggi che la frequentano. Una sparatoria, un giorno, lo rende scomodo testimone e, con grande strazio, i genitori lo imbarcano per la Sicilia da uno zio. Il giovane clandestino trascorre il tempo rintanato tra le macchine assordanti nella stiva, interrogandosi perché deve scappare chi ha visto e non chi ha commesso il delitto.
Accolto calorosamente, fa il ragazzo di bottega nella barberìa dello zio, imparando i segreti e le alternative del mestiere che prevede anche la funzione di cavadenti e veterinario.
Insapona, racconta e canta Salvo, con la nostalgia nel cuore e la luce del futuro negli occhi. Mancato lo zio, Salvo ne prosegue l’attività, fiero del suo ruolo.
Ma i tempi cambiano, le professionalità si specializzano, ‘u varveri deve limitarsi a tagliare i capelli e radere la barba, sono le nuove regole della modernità.
Con un testo incisivo e poetico che si concede alcune incursioni nell’idioma dialettale novecentesco che evoca il Montalbano di Camilleri, Gianni Clementi delinea uno scorcio storico che ha caratterizzato il contesto sociale siciliano, con masse di emigranti che espatriavano spinti dalla fame e dall’assenza di prospettive di lavoro.
Massimo Venturiello, regista oltre che interprete, leggero ed elegante in giacca bianca e pennello insaponato che spalma con la leggiadria di un artista, ci immerge nell’atmosfera caliginosa del porto di New York brulicante di misera umanità, ci proietta nell’assolata campagna isolana profumata di zagara e rosmarino o ricotta e pasta con le sarde, ci descrive tonnare e donne eternamente in lutto, titillando la commozione di chi conserva qualche retaggio di memoria di un’epoca di picciotti e brillantina.
Lo accompagna un’orchestra “da barba” siciliana diretta da Domenico Pontillo, la Compagnia Popolare Favarese composta da Peppe Calabrese chitarra e voce, Maurizio Piscopo fisarmonica e voce, Mimmo Pontillo mandolino, Raffaele Pullara mandolino, Mario Vasile percussioni, che suonano musiche antiche e quasi primitive, intonando serenate e canti popolari e che, alternativamente, si sottopongono al rito della rasatura.