di Marco Martinelli
ideazione: Marco Martinelli, Ermanna Montanari
con: Alessandro Argnani
musica: Cristian Carrara
spazio scenico e costumi: Ermanna Montanari
luci: Enrico Isola, Danilo Maniscalco
fonica: Fabio Ceroni
allestimento scenico a cura della squadra tecnica del Teatro delle Albe: Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Danilo Maniscalco
organizzazione e promozione: Silvia Pagliano e Francesca Venturi
ufficio stampa: Rosalba Ruggeri e Matteo Cavezzali
regia: Marco Martinelli
produzione: Teatro delle Albe – Ravenna Teatro
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“Slot Machine racconta la caduta vertiginosa di un giocatore, di un annegare nell’azzardo, dove ogni legame affettivo viene sacrificato sull’altare del niente. Amara è la sua fine e, nel suo malato sogno di potenza, delira da solo dal fondo di un fossato di campagna, colpito a morte dai suoi strozzini, allo stesso tempo vittima e carnefice di se stesso”. Marco Martinelli
Si spengono le luci in sala e piomba l’oscurità. In scena non accade nulla… per un po’.
Gli spettatori si preparano a vivere i 50 minuti promessi di spettacolo. Tutti vicini, le poltroncine sono scomodi sedili di stoffa senza braccioli, non c’è divisione fra l’uno e l’altro, ma tutti a stretto contatto. Non si ode nulla. Nel buio sembra sospeso anche il respiro. Ciascuno è di fronte al buio, al proprio buio, che spalanca la sua bocca vorace per inghiottire ogni certezza. Attesa. Rimescolio di sensazioni. Non è disagio, piuttosto una sorta di anticamera dove ci si prepara ad assistere alla confessione umana di un giocatore disperato. (Il foglio di sala ha già spiegato tutto).
Ancora buio, ma qualcosa comincia a concretizzarsi: parole incomprensibili, sembrano versi di un animale ferito che si muove cauto dapprima, poi come prendesse coraggio sempre più caparbio e frenetico fino ad imbizzarrirsi. Lamenti, grida, risate sguaiate, rumori, calpestio rendono il buio sempre più denso. È già passato un bel po’ di tempo quando in una scheggia di luce appaiono dei piedi che si muovono, corrono, scalpitano come zoccoli di un cavallo, poi la fievole luce sale sulle gambe ed infine …spettrale appare un viso. Barba incolta, occhi iniettati di sangue, bocca spalancata in un grido muto di rabbia. Non si vede ma la bava si intuisce. E il racconto comincia.
La luce rimarrà sempre in fondo al tunnel, in scena nella penombra appare un grande rettangolo riflettente con l’immagine di un uomo steso su una pedana che si contorce rumorosamente e si dibatte farfugliando di due mondi che lo condannano. “Sfigato” per quelli di fuori e “Cretinetti” per quelli di sotto. Due categorie che lo stritolano negli stereotipi.
Ancora due specchi verticali ai lati della scena, due lunghi rettangoli che riflettono il pubblico.
Ciascuno è chiamato in causa, come testimone ma ancor di più come partecipe di una giuria popolare che non può intervenire, ma soltanto giudicare dopo aver ascoltato i fatti e le ragioni, gli effetti disastrosi prodotti da cause incomprensibili ma inappellabili. Trucchi, stratagemmi, bugie, ricatti, esaltazioni e cadute. Amici, prestiti, banche, finanziarie, strozzini. Mediocrità e dipendenza.
Ma è tutto perfettamente legale. Le macchinette per giocare sono nei locali pubblici, che hanno tutti i permessi in regola. E allora sono forse le regole da cambiare?
Prevedibile, anche se inserito in una coreografia ridondante, dove anche la terra viene rappresentata con filari di piccoli alberelli di Natale e la manciata di terra nera, scura, fertile che scivola fra le dita dell’attore chiude la parabola discendente di “Slot machine”.
L’attore si sbatte molto nella sua interpretazione e fatica anche fisicamente nel suo vestito troppo grande, stropicciato dalle sofferenze, e si impegna nel suo ruolo, con la voce strozzata da risate isteriche ed agghiaccianti, ma il pathos arriva ombroso, a brandelli e la comunicazione trova un muro difficile da superare.
È forse il tempo storico e sociale che non fa abbassare le difese ed ognuno è già troppo coinvolto nelle sofferenze dell’umanità per essere disposto a condividerne altre. Ovviamente il teatro racconta le sue storie ma non sempre raggiunge il magico momento in cui l’effetto catartico giustifica la rappresentazione delle vicende umane.