“Gli italiani sono fatti così. Vogliono che qualcuno pensi per loro.” non sembra esserci speranza nelle parole pronunciate da Mario Monicelli durante l’intervista andata in onda nella trasmissione “Servizio pubblico” del 7 maggio 2015. E, infatti, non c’è, come puntualizza lui stesso dicendo che “la speranza è una trappola inventata dai padroni. Mai avere la speranza. La speranza è una cosa infame inventata da chi comanda”. Il grande regista dipinge gli italiani come un popolo di schiavi, che non è mai stato in grado di fare una vera rivoluzione.
Sono queste le parole che Andrea Scanzi sceglie per iniziare il suo spettacolo “Sogno di un’Italia”, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, dove accompagnato da Giulio Casale, ripropone, sulle tracce del successo della pièce “le cattive Strade”, uno spettacolo di Teatro Canzoni che prende spunto dal suo libro “Non è tempo per noi”, per raccontare un ventennio di torpore, di estremo individualismo, di mancanza di punti di riferimento politici e culturali ma anche di episodi e personaggi che hanno segnato la storia del nostro Paese.
Scritto e interpretato insieme a Giulio Casale, scrittore, musicista e attore, “Il sogno di un’Italia” di Andrea Scanzi è un intreccio di parole e musica attraverso le quali si ripercorre il ventennio che va dal 1984 al 2004, periodo di anestesia totale del nostro Paese, intorpidito dalla televisione, dalle canzonette sanremesi e da una politica opportunistica e voltagabbana. Due decenni che invece di cambiare l’Italia in positivo hanno peggiorato in modo disastroso le sorti della Penisola.
Scanzi li ripercorre attraverso i protagonisti non solo politici, ma della cultura, della musica, dello sport: si passa dalla morte di Berlinguer a quella di Marco Pantani, dalla superficialità sfrenata degli anni 80, in cui l’unico obiettivo era quello di calmare e silenziare le coscienze, al racconto dei terribili e cruenti fatti di sangue del G8 di Genova, un terribile episodio ancora avvolto nel mistero, per il quale nessuno ha mai pagato veramente. Viene poi ricordato Troisi e la sua caparbietà ideologica nella volontà di portare avanti il suo capolavoro, “Il postino” nonostante questo potesse costargli la vita, fino ad arrivare al 1992 punto cruciale per la storia dell’Italia, che vedrà nel giro di due mesi morire Falcone e Borsellino, gli unici eroi di questo tempo buio. E poi si arriva al 1994 anno dell’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, con tutte le conseguenze poco edificanti che ne sono seguite.
Il monologo di Andrea Scanzi dissacrante, spregiudicato, pungente si alterna, in maniera un po’ troppo schematica, alle performance musicali di Giulio Casali che interpreta sia canzonette leggere per dipingere la superficialità, anche artistica, di un certo periodo storico, sia canzoni di grandi cantautori italiani come Ivano Fossati, Giorgio Gaber, De Gregori, Vasco, passando per Leonard Cohen e altri. Il risultato è eccessivamente didascalico nella sua alternanza tra parole e musica e nella sovrabbondanza di episodi narrati si perde, in alcuni punti, la possibilità di approfondire degli spunti in modo più profondo e dettagliato. Anche le canzoni, nonostante la bella voce di Giulio Casale, risultano in alcune occasioni ridondanti ed interpretate in modo eccessivamente enfatico.
Nel complesso comunque lo spettacolo getta le basi di una profonda riflessione sulle sorti del nostro Paese e lo fa anche con l’onestà intellettuale che si deve riconoscere ad Andrea Scanzi, che non si limita a narrare i fatti ma fa capire il suo punto di vista, la sua posizione politica e morale. E alla fine, seppur le fondamenta di quest’ultimo ventennio non siano proprio solide, Scanzi vuole concludere con un messaggio di speranza, che assume anche un sapore un po’ demagogico: attraverso la conoscenza e la memoria di ciò che siamo stati possiamo costruire ciò che vogliamo diventare e provare a rendere migliore il tempo che dovrà venire, proprio come dice Fossati: “C’è un giorno che ci siamo perduti / come smarrire un anello in un prato / e c’era tutto un programma futuro / che non abbiamo avverato. / È tempo che sfugge, niente paura / che prima o poi ci riprende / perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo / per questo mare infinito di gente”.