Alessandro Riccio è ormai una sicura e attesa presenza del fine stagione rifredino. Quest’anno l’attore e regista fiorentino propone al pubblico uno spettacolo atipico, sorprendente, si direbbe paranormale. Tra i tanti personaggi curiosi della storia italiana, in cui Riccio ama vagare alla ricerca di ispirazione, stavolta ne ha scovato uno davvero bizzarro: Eusapia Palladino, sedicente spiritista di fine Ottocento, capace di mettere in contatto i vivi coi morti e nota per le sue doti ultraterrene anche oltralpe.
La prima domanda sorge spontanea: come sei venuto a conoscenza di un personaggio come Eusapia Palladino?
Sono un grande appassionato di personaggi storici, ho lavorato sui Medici e su altre personalità, fiorentine e non. Qualche anno fa mi sono imbattuto in Cesare Lombroso, scienziato che studiava la fisiognomica, il rapporto tra volto e psicologia; in questa grande ricerca di verità, conobbe Eusapia Palladino, all’epoca famosissima. Lombroso assistette a qualche seduta, cercando di capire se la Palladino fosse effettivamente una medium o no e ne rimase colpito. Disse che lei era un genio, un personaggio fuori dalla norma, con poteri inspiegabili, mentre oggi sappiamo che fu una truffatrice. Mi piacque il fatto che la Palladino riuscisse ad avere credibilità anche tra gli studiosi: Pierre Curie, ad esempio, assistette a una seduta insieme alla moglie, Marie Curie, e rimase affascinato dai suoi poteri. Una donna come lei, ignorante, vissuta nei bassifondi napoletani, dall’aspetto semplice, riuscì ad affascinare il mondo con le sue capacità.
Come hai detto, ti sei occupato di molti personaggi della storia italiana, e l’impressione è quella che tu voglia “scollare” questi nomi altisonanti dalle pagine dei libi e delle riviste e farli vivere davvero. È così?
Sì, voglio umanizzare il mito. Una delle cose che a me dà più fastidio è quando dopo la morte gli artisti, o le persone in genere, vengono migliorate. Perché non si può essere oggettivi e capire quando le persone hanno delle grandi capacità o dei grandi difetti mentre sono vivi? Perché non si può accettare l’essere umano nella sua completezza, senza mitizzarlo né denigrarlo dopo la morte? Il mio obiettivo è rendere umanità ai personaggi mitizzati.
Come hai costruito il personaggio della Palladino? Hai cercato, attraverso le fonti, di assomigliare a lei, oppure hai preso spunto dalla sua storia creando un personaggio tuo?
Ovviamente per la caratterizzazione mi sono basato sulle cronache: era una donna bruttarella, poco femminile, piuttosto tozza, che si muoveva in maniera poco elegante… tutte doti che potevano essere interpretate da un uomo. Credo che sia molto importante che il personaggio di Eusapia, all’interno dello spettacolo, venga interpretato da un uomo, perché se fosse interpretato da una donna non avrebbe la stessa rozzezza, lo stesso disagio che lei ha vissuto. Disagio perché ha cercato di diventare una sorta di diva dell’epoca per sopperire a questa mancanza di felicità femminile, come per rivalsa. Mi sono basato molto sulle descrizioni storiche e poi ho cercato di personalizzarla sulla mia fisicità. Oggi come oggi tutti possono interpretare tutti, un attore deve essere capace di uscire da sé stesso, non soltanto a livello personalità, ma anche di fisicità e sessualità: si può farlo attraverso il trucco e gli strumenti di scena.
Del trucco e degli strumenti di scena tu fai un uso molto ampio, si può dire che è una tua cifra, che in questo spettacolo risalta al massimo [in Sotto spirito Veronica di Pietrantonio ha curato i costumi, cuciti da Daniela Ortolani, e Lorenzo Girolami le luci, ndr]
Io mi contrappongo all’idea che il trucco sia uno strumento minore a livello espressivo. Oggi come oggi si lavora molto senza trucco, parrucche, nasi finti, forse considerandoli strumenti passati. Proprio avendo studiato tanto la fisiognomica, quindi i messaggi del corpo, io non posso pensare di interpretare un personaggio diverso da me con la mia faccia, o i miei capelli, o con la mia fisicità: per cui uso molto anche le protesi, che siano imbottiture al seno, alle gambe, o alle spalle. Secondo me l’interpretazione è una cosa in cui corpo e personalità sono fortemente collegati.
Il tema, predominante nello spettacolo, della verità e della fede in senso lato è certamente caro a un attore, ma forse anche a uno spettatore: la magia del teatro, la catarsi, richiede uno sforzo di fiducia verso ciò che si ha davanti
È interessante, infatti, come lo spettacolo parli di una tematica metateatrale. Io credo allo spettacolo perché ci voglio credere, perché mi interessa imparare dalla vita e dalle vicende dei personaggi che sto osservando, così come nella vita posso imparare da delle bugie che possono essermi più utili della verità. E qui si apre anche la questione su cosa sia oggettivamente la verità. Credo che, concentrandosi sul fatto che l’essere umano deve stare bene, tutto quello che lo fa stare bene è giustificato, che sia vero o no.
Cos’è quindi per te il teatro? Ha anche una funzione didattica?
Il teatro è il modo di imparare la vita al sicuro dai problemi che questa ci pone: io sono in platea, vedo un personaggio che ha degli ostacoli da superare e capisco come li supera senza doverli affrontare sul momento, senza che mi riguardino da vicino. Imparo dall’esperienza degli altri. Lo scambio è il vero strumento che ci permette di migliorare nella vita.
In Sotto spirito sul palco con te ci sono Daniele Favilli, Piera Dabizzi, Duccio Raffaelli, Maria Paola Sacchetti, Jacopo Paradisi e Sofia Busia. Hai scelto gli altri attori in base ai personaggi che ruotavano intorno alla Palladino o hai calato dei personaggi sugli attori con cui volevi collaborare?
Avendo la fortuna di poter scrivere i testi, di solito scelgo prima gli attori e, capendone le peculiarità e le capacità, ci scrivo sopra i personaggi. Questo mi permette di rafforzare la capacità descrittiva dell’attore, conoscendo in quali lati emotivi sa affondare e quindi quale verità, quale forza può portare sul palco. Avendo già lavorato con tutti loro, abbiamo trovato una sintonia e una velocità di lavoro incredibile: abbiamo preparato questo spettacolo in due settimane e mezzo e siamo stati felicissimi del risultato.
Nello spettacolo ogni personaggio parla con un suo dialetto, un po’ come nella Commedia dell’arte. Tu parli napoletano, talvolta stretto: una scelta che può essere anche rischiosa. Come hai scelto l’uso del dialetto nello spettacolo?
La scelta è nata da due elementi: il primo è appunto il riferimento alla Commedia dell’arte, in cui i personaggi già attraverso il modo di parlare raccontano una personalità, un territorio; il secondo è una riflessione sulla lingua italiana. Quando sono stato in tournée, qualche anno fa, mi sono stupito del fatto che nessuno parlasse italiano: in qualsiasi contesto c’era sempre qualcuno con la sua cadenza e il suo dialetto. Questo negli anni 2000, quindi immaginiamoci cin quanti, nel 1890, quando l’Italia era appena stata unificata, potessero parlare italiano. L’italiano è una lingua imposta per uniformare la comunicazione, ma non è la lingua di esperienza che ogni territorio possiede. Mi piaceva rimanere fedele alla realtà: le persone parlano influenzate dal luogo nel quale sono nate.
C’è qualcosa che vorresti dire ai tuoi spettatori – o futuri tali?
Mi piacerebbe piuttosto fare una domanda: cos’è che si porta a casa uno spettatore dopo Sotto spirito, ma in generale dopo i miei spettacoli? Molti mi mandano messaggi dopo lo spettacolo, anche tramite i social network, e questo mi fa piacere perché la figura dell’attore in questo modo acquista maggiore dignità: lo scopo sociale dell’artista è scatenare emozioni, permettere allo spettatore di sognare, di essere per un attimo rapito dalla quotidianità ed entrare in un mondo che non è quello “reale”.
Sotto spirito è uno spettacolo ben scritto e ben costruito, da cui lo spettatore non può che trarre piacere. Un piacere leggero, di mero divertimento e sana comicità. Ma anche un piacere più profondo nel condividere con gli altri – attori, personaggi e spettatori – un sentimento, sia esso lo sgomento di fronte un colpo di scena sapientemente ingegnato, la paura dell’aldilà o il sollievo, finale, di essere di qua dal sipario. Ciò che più importa, ed Eusapia Palladino sarebbe d’accordo con me, è ciò che non si vede, ma si avverte. Non parlo di spiriti o presenze, ma della sceneggiatura, asciutta e precisa, al passo coi tempi. Alessandro Riccio è riuscito a mantenere sempre viva l’attenzione della platea, oggi esigente e talvolta frettolosa, senza scadere nel banale. Ha trovato una soluzione al problema cogente del ritmo scenico che non annoia e nemmeno mina alla completezza dello spettacolo, e non è cosa da tutti.