Spettacolo Finalista Premio Scenario 2015
Drammaturgia e Regia Paola Di Mitri
Con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno, Francesco Marilungo
Scene e luci Eleonora Diana, Lucio Diana
Costumi Valentina Menegatti
Produzione La Ballata dei Lenna
Produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti
Con il sostegno di Kilowatt Festival; Teatri di Bari/ Teatro Kismet OperA
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La Ballata dei Lenna è un collettivo di ricerca teatrale formato da Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno e nasce nel 2012 alla Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe”, dove i tre attori si formano e diplomano. Producono “REALITalY” (2014), “Cantare all’amore” (2013), “La protesta – una fiaba italiana” (2012).
Plastica. Una bolla di plastica al centro della scena, un uovo si schiude dando vita ad un uomo, dalla placenta di plastica nasce un bambino cresciuto, nudo ad esclusione di un pannolone plastificato, da cui fuoriesce un lungo cordone rosso alla cui estremità è fissato un microfono. Alla scoperta delle proprie capacità motorie e tattili, il camaleonte umano schiacciato dagli stereotipi vaga per la scena utilizzando il microfono come corpo contundente alla scoperta di suoni. Sul fondo una tenda di fili-cavi rossi come lunghe cannucce di plastica ed ancora buste e buste di plastica trasparente a formare una siepe cespugliosa. In un mondo di plastica si muove bene, con plastiche movenze, Adamo (Francesco Marilungo) materializzatosi dalle fantasie di Andrea (Nicola Di Chio) alle prese con la sua prima sceneggiatura cinematografica. È un classico, per non dire, già fin troppo visto, ricorrere al racconto di una visione per dare forma ad una trama, ma può, a volte, rivelarsi un buon espediente.
Un divano bianco viene spinto in scena quale grembo- nicchia- culla di purezza in cui rifugiarsi e cercare conforto anche in un amplesso onirico con una donna scimmia, alter ego di Adamo.
La scena madre in cui la donna scimmia (Paola Di Mitri) spara ad Adamo per ucciderlo, diventa quindi l’ossessione di Andrea, il tormentone ironico, il filo rosso paranoico, che nascondendo la sua incapacità di allontanarsi dalla figura paterna lo divora ingigantendo le sue paure e la sua insana relazione con gli altri, il mondo e se stesso.
Il padre è morto e la sorella Sonia (Miriam Fieno), vestita di grigio (ma poi cambierà spesso d’abito, a rivestire varie modalità e sfaccettature di personalità), ritorna a casa per leggere insieme a lui la lettera testamento in cui il padre ha lasciato loro l’eredità morale.
Andrea e Sonia sono cresciuti insieme ma le loro vite si sono allontanate ed hanno preso direzioni completamente divergenti. Lei vive della sua arte, girando irrequieta il mondo, dal Canada all’Argentina alla ricerca di un posto caldo e la necessità di calore umano ed esistenziale è testimoniato dalla arida freddezza con cui parla del suo lavoro. Un brivido percorre comunque la sala. È disgustoso e macabro nella sua eccessiva metafora. Statue vivente mutilate negli arti per somigliare a qualcun altro ed esposto nei salotti delle persone ricche. Meglio statue che suicidi. Dirà per giustificare il proprio cinismo!
Siamo abituati all’iperbole, al gusto della provocazione, ma qui diventano appena una sfumatura in questa tavolozza di colori sgargianti e mescolati con imperizia.
Troppo in questo spettacolo! Troppi elementi sovrapposti senza una scelta precisa di linguaggio. Un inizio di movimento senza parola, poi la verbosità prende il sopravvento . Adamo utilizzato come valletto muto che regge il microfono è abbastanza divertente ma poi diventa prevedibile. La trama semplice è baroccamente orpellata di simboli ed effetti. I fili rossi vengono legati e la tenda si trasforma in un albero, la mela appesa ad un filo dentro una busta di plastica, passata di mano in mano e morsicata a turno, la grande apparizione della donna di bianco vestita, sempre di plastica, a giganteggiare nella coscienza e nel ricordo, le maschere a forma di animali, asino e scimmia, ed ancora tanti e tanti.
Testo prolisso e verboso, linguaggio del fratello scivolato nella cadenza dialettale, monologo urlato al mondo attraverso un microfono attaccato alla bocca, della sorella che riempie la scena con tutti i suoi capelli, utilizzati come elemento scenografico.
Da apprezzare il tentativo di espressione della propria ricerca esistenziale nel confronto con l’eredità dei padri, ma l’invito, o meglio il suggerimento è quello di studiare e di approfondire quello che i padri hanno realizzato.
La ricerca e la sperimentazione da sempre hanno il ruolo di sconvolgere ed annullare ciò che precede, ma a volte o forse sempre è giusto conoscere il muro che si vuole abbattere perché si potrebbe scoprire che è già stato abbattuto.
Ma, come le colpe dei padri ricadono sui figli, anche le strade della ricerca sono tortuosamente ed inestricabilmente intrecciate ed molto difficile scoprirne di nuove. I sentieri già percorsi sono nuovamente nascosti sotto l’esplosione della rigogliosa natura che rompe anche il cemento per germogliare e salutiamo quindi con speranza nuove forze creative che si affacciano sulla scena teatrale armate di machete per farsi spazio nella giungla della monotona omologazione.